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domenica 2 febbraio 2014

ADRIATICO E TIRRENO: DUE CIMITERI DI ARMAMENTI CHIMICI UNITED STATES OF AMERICA



Estratto dal libro IL GRANDE FRATELLO. STRATEGIE DEL DOMINIO 

 il capitolo 

                                              Bombe amare      


di Gianni Lannes
Mediterraneo in agonia: testimone silenzioso della guerra balcanica e custode degli orrori, risalenti all’ultimo conflitto planetario. Un mare di armi chimiche e nucleari: un milione di ordigni proibiti e convenzionali inabissati dagli Alleati nel “Mare Nostrum”, dal 1943 ai giorni nostri. Ma il numero a conti fatti, seppure desunto dai documenti sepolti negli archivi istituzionali - National Archive di Londra, Department Defense USA, Archivio di Stato italiano, Archivio Storico della Marina Militare - è pur sempre sottostimato. 

Due le aree particolarmente colpite dalle discariche subacquee di scorie belliche, disposte dagli statunitensi a stelle e strisce: il Tirreno e, soprattutto, l’Adriatico, un mare chiuso che impiega 100 anni per il ricambio delle acque superficiali. Il rapporto dell’US Army (29 marzo 2001) denominato “Off-Shore Disposal of Chemical Agents and Weapons Conducted by The United States”, a parte il riscontro diretto, è un’altra prova tangibile. Nel testo ufficiale, a pagina 12 si fa esplicito riferimento all’affondamento di un notevole quantitativo di ordigni imbottiti di aggressivi tossici: nella Baia di Napoli, all’isola di Ischia, nel Golfo di Manfredonia, al largo del porto di Bari e in un luogo non indicato, ma pur sempre nelle acque territoriali italiane. In una relazione più recente (3 gennaio 2007) al Congresso USA (“U.S. Disposal of Chemical Weapons in The Ocean”), l’analista David M. Barden sottolinea che considerevoli, ma sconosciute, siano la quantità e la tipologia di munizionamento affondato dalle Forze Armate USA. In uno studio (11 novembre 2010) realizzato dall’associazione indipendente Global Green USA (diretto da Paul F. Walker) per conto dell’Onu, sono indicati - nella mappa geografica a pagina 8 - come siti di affondamento, proprio l’Adriatico (Gargano) ed il Tirreno. Il report evidenzia che gli USA nel periodo 1918-1970 hanno inabissato migliaia di bombe e missili, particolarmente nel ventennio 1946-1965. La testimonianza di Ugo D’Atri (con esperienza da alto ufficiale della Marina) è di un addetto ai lavori di primo piano: «L’opinione pubblica italiana non è stata messa sufficientemente al corrente. Soprattutto nell’Adriatico, ma non solo, dal ’45 c’è stato un diluvio di bombe, probabilmente un milione: iprite e gas nervino, roba veramente pericolosa. Di queste bombe, soprattutto a Molfetta dove ho avuto da giovane un’esperienza di comando, ne trovavamo, si può dire, una al giorno. E le trovavamo sotto costa nel periodo ’92-’93. A poche decine di metri dalla spiaggia, a Torre Gavetone. Le prime ordinanze le ho fatte io. Poi abbiamo cominciato con la Marina militare una lunghissima opera di recupero. I nostri fondali marini, anche non tanto al largo, cioè sotto costa, sono disseminati di ordigni. I fondali del basso Adriatico sono strapieni di bombe. Anche sul Tirreno, a Napoli e dintorni, a Salerno, i fondali marini sono pieni di bombe. Questi residuati bellici sono pericolosissimi...

Gli ultimi conflitti bellici, più o meno preventivi, ci hanno indotti a considerare il lato oscuro delle strategie militari. La guerra chimica è uno degli eventi ancora oggi meno conosciuti del secondo conflitto mondiale. Sempre più spesso, a battaglia terminata da oltre mezzo secolo, emergono circostanze scomode per la propaganda delle forze in campo vincenti. L’iprite è un liquido bruno, oleoso, volatile che attacca e distrugge tutte le cellule viventi. Il solfuro di etile biclorurato aggredisce, se respirato, l'apparato cardiovascolare. Colpisce con vesciche e piaghe, senso di arsura, difficoltà a respirare, cecità. La Iarc (agenzia internazionale per la ricerca sul cancro) ha stabilito: «è a rischio di cancerogenicità per l’essere umano». Produce esiti neoplastici - argomenta la letteratura scientifica - a carico dell’apparato respiratorio ed emolinfopoietico anche dopo singole esposizioni. Usata per la prima volta dall’esercito tedesco in Belgio, a Ypres (1917), l’iprite è stata messa al bando dalla Convenzione di Ginevra nel 1925. Le potenze occidentali, tuttavia, hanno continuato a produrla, mascherata dall’industria del cloro. Le fonti storiche parlano chiaro: basta esaminarle. Occultate dai segreti insabbiati, malamente oscurati, spesso intrappolati nelle reti dei braccianti del mare, infine dimenticati. Eppure attuali: infatti seguitano a colpire, anzi sono programmati per manifestare l’azione ritardata a distanza di tempo, specie sulle generazioni future, in ottemperanza a quanto avevano indicato tre luminari americani alla Casa Bianca. Il Memorandum Groves(segretato fino al 1975) prospettava di inquinare un’area e danneggiare le forme di vita presenti, per continuare a colpire le generazioni future. In altri termini, creare menomati per sempre. Gli autori di quella famigerata indicazione (James Bryant Conant, rettore dell’università di Harvard nonché presidente del National Research Defense Council, ed i premi Nobel Arthur H. Compton e Harold C. Urey) suggerivano il 30 ottobre del ’43 al governo USA di «utilizzare l’uranio sporco per inquinare le città nemiche con nuvole di nanoparticelle radioattive». Non è proprio un mistero, il fenomeno è sempre più palese: la nocività come strategia globale di dominio. 

Dal 1946, in Italia, è andato in onda quotidianamente uno stillicidio invisibile all’opinione pubblica, di pescatori infortunati, gravemente ammalati e deceduti per cause misteriose. Lo studio scientifico di Adamo Mastrorilli (Esiti a distanza di lesioni di vescicatori), analizzava il caso di 102 pescatori molfettesi, ipritati dal ’46 al ’54, e venne pubblicato nel 1958 dal Giornale di Medicina Militare (numero 4). Nell’Adriatico fra il 1950 ed il 1960 la frequente contaminazione con casi mortali della gente di mare da iprite, fosgene, fosforo, lewisite e napalm, ha assunto le caratteristiche di massa. Nel 1960 la Rassegna di Medicina industriale e di Igiene del Lavoropubblicava lo studio a cura di Nicola Mongelli Sciannameo, Infortunio collettivo da solfuro di etile biclorurato in un gruppo di pescatori.«Tirando la rete avvertiva bruciore alle mani provocato probabilmente da sostanze tossiche (Gas Iprite?)», svela una denuncia del 14 marzo 1966: è l’ infortunio occorso al pescatore Francesco Andriani, a bordo del peschereccio Maria Giuseppa Madre. Un gravissimo incidente di cui si abbia notizia ufficiale risale al 25 luglio 1996. Nel pomeriggio di quel giorno il peschereccio Marco Polo, impegnato in una battuta di pesca a venti miglia dal Gargano, ha preso una bomba che ha mandato all’ospedale con gravi ustioni tre uomini d’equipaggio. Alla fine del mese di giugno del ’96, al largo del litorale veneziano, nei pressi di Chioggia, una misteriosa sostanza giallognola - descrivono le cronache -, cerosa e viscida faceva incendiare le reti dei pescherecci a contatto con l’aria. Le analisi di laboratorio svelarono che si trattava di fosforo bianco, un liquido altamente tossico, normalmente impiegato nell’industria bellica per le bombe incendiarie. Un’inchiesta giudiziaria della Procura della Repubblica di Venezia accertò che «La sostanza è diffusa in maniera puntiforme e non omogenea, quindi difficilmente localizzabile»...

«Sui fondali è presente armamento convenzionale (bombe d’aereo, mine, proiettili d’artiglieria) e “chimico” - spiega il biologo Ezio Amato che, per conto dell’Istituto centrale per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare, dal ’97 al ’99 ha monitorato l’impatto dei residuati bellici sugli ecosistemi marini -. Quest’ultima tipologia è costituita da una carica di iprite, fosgene, fosforo e composti contenenti arsenico (lewisite, adamsite, Clark I, Clark II). L’esposizione a tali sostanze provoca nell’essere umano danni molto seri, data l’azione di tipo vescicante, asfissiante, irritante e tossica. I pesci dell’Adriatico sono particolarmente soggetti all’insorgenza di tumori, subiscono danni all’apparato riproduttivo, sono esposti a vere e proprie mutazioni che portano a generare esemplari mostruosi». Nella relazione dello studio campione (ottobre 1999) - una sorta d’ago in un pagliaio, quanto al numero complessivo di bombe - i biologi Amato ed Alcaro hanno documentato: 

«Si è accertata la presenza sui fondali del Basso Adriatico di almeno ventimila ordigni con caricamento costituito da aggressivi tra cui varie formulazioni di iprite e composti a base di arsenico; in totale si sono individuate ventiquattro diverse sostanze costituenti il “caricamento speciale”, di queste, diciotto sono persistenti e in grado di esercitare effetti nocivi per l’ambiente. Nell’area “pilota” sono stati individuati centodue bersagli di interesse; tra questi ne sono stati ispezionati mediante robot filoguidato sedici, e undici sono risultati essere ordigni a carica chimica corrosi. I campioni prelevati, acqua, sedimenti e pesci, sono stati sottoposti a quattro diverse metodologie d’analisi che, nel complesso, indicano la sussistenza di danni e rischi per gli ecosistemi marini determinati da inquinanti persistenti rilasciati dai residuati corrosi. In particolare, grazie ai confronti effettuati con esemplari prelevati nel Tirreno meridionale, le analisi hanno rivelato, in alcuni campioni, tracce significative di arsenico e derivati dell’iprite e la sussistenza di condizioni di sofferenza nei pesci attribuibili alle sostanze fuoriuscite dai residuati bellici». 

Il governo italiano non ha fatto nulla se non barcamenarsi annegando nel vuoto della censura informativa. Pesci malati e mutageni continuano a finire sulle nostre tavole, come se niente fosse...

L’interrogazione parlamentare (numero 6324) del 20 novembre 1951, indirizzata da Enzo Capalozza al ministro della Marina Mercantile, esigeva interventi urgenti, tuttora non realizzati: «Per conoscere quali urgenti misure voglia prendere per il rastrellamento delle bombe all’iprite che sin dal 1944 sono state gettate in mare dalle truppe tedesche in ritirata e che oggi infestano il tratto dell’Adriatico da Ancona a Pesaro - e specialmente da Fano a Pesaro - che provocano lesioni gravi e incapacità al lavoro ai nostri pescatori». 

Il sottosegretario di Stato Tambroni confermava la pericolosa presenza dell’ arsenale fornendo sei coordinate di affondamento: 

«l’ufficio circondariale marittimo di Cattolica, sulla base delle denunce di rinvenimento ricevute dal 1945 in poi e di quelle di infortunio dei pescatori locali per contaminazione da aggressivo chimico, ritiene di poter affermare che la zona in cui le bombe ad iprite sarebbero state affondate si troverebbe fra Pesaro e Castel di Mezzo». 

La quantità degli ordigni risalenti alla seconda guerra mondiale è incalcolabile: le navi americane hanno trasportato in Italia complessivamente circa 10 mila tonnellate di bombe aeree all’iprite. Al termine del conflitto bellico furono affondate su disposizione Usa, dinanzi alla costa pugliese. Lo storico Vito Antonio Leuzzi, responsabile dell’Istituto pugliese per la Storia dell’Antifascismo, per anni ha cercato le prove dell’affondamento del materiale bellico disposto dalle autorità marittime italiane e le ha scovate: «I fondali di alcune zone di mare comprese fra Molfetta e Manfredonia furono utilizzati dal 1946 al 1955 come discarica dell’immensa quantità di bombe chimiche proibite dalla Convenzione di Ginevra del 1925, che gli angloamericani custodivano a Bari nell’Adriatic Depot e nel grande campo d’aviazione del Tavoliere». 

La richiesta al governo italiano fu indirizzata dal governo Usa per occultare prove compromettenti. 

«Nell’agro di Manfredonia gli Alleati avevano allestito, accanto alle basi aeronautiche della 15ª Air Force, il campo munizioni che si estendeva su di una superficie di 20 chilometri quadrati - rivela l’anziano Raffaele Occhionero, Clerk Supervisor del Town Major (comandante del presidio delle forze militari di occupazione) -. Al termine del conflitto le bombe all’iprite, fosgene e fosforo sono state scaricate a un paio di miglia dalla costa, al largo di Manfredonia, dai prigionieri tedeschi e dai lavoranti italiani». 

Lo Stato italiano e quello inglese sono tenuti al segreto militare fino al 2018 e i loro archivi risultano quasi inaccessibili. La prima censura fu ordinata da Churchill per celare le responsabilità britanniche nell’uso di un aggressivo chimico vietato dalle norme di guerra. Anche le autorità militari e civili del Belpaese, però, non hanno sfigurato, tanto da «distruggere le cartelle cliniche degli infortunati - argomenta il professor Nico Perrone, docente universitario -. Occultando le cause degli infortuni i governi italiani hanno impedito che i numerosissimi malcapitati venissero curati efficacemente». Di recente, nel 2011, i pescatori ipritati di Molfetta si sono visti negare l’accesso alle proprie cartelle cliniche dai responsabili del Policlinico di Bari (un ospedale pubblico). Un solo esempio a portata di rete: è accaduto a Vito Tedesco e a suo fratello, contaminati alle mani e agli occhi. 

Le indagini della cattedra di Igiene industriale dell’università di Bari e una ricerca dell’Istituto di Medicina del Lavoro hanno concluso che «La frequente contaminazione da iprite dei pescatori ha assunto caratteristiche di massa». Un rapporto dell’ex ministero della Marina Mercantile ha riconosciuto che «un quarto dell’intera superficie marittima del basso Adriatico è inutilizzabile per la pesca a strascico». Il problema è che, nonostante le promesse istituzionali, lo Stato italiano non intende recuperare e smaltire legalmente accumuli di iprite e fosgene ingentissimi e ormai privi di ogni protezione esterna. Troppo imbarazzante per gli Alleati (padroni) Usa. Alla fine della Seconda guerra mondiale la parte più a sud del Mare Adriatico rappresentava la principale area di seppellimento del Mediterraneo. La maggior parte del materiale bellico scaricato in mare proveniva dai depositi di armi convenzionali e chimiche che i tedeschi prima e gli Alleati dopo avevano installato nei pressi di Foggia e Bari. A peggiorare la situazione, l’inabissamento di ordigni recuperati dalle navi USA affondate nei porti pugliesi. Da molte interviste coi pescatori locali (pugliesi, ma anche maltesi, albanesi e croati) risulta evidente l’esistenza di “dumping sites non officially reported” (discariche non denunciate ufficialmente). 

Al largo del Gargano (parco nazionale) è stata segnalata, dagli operatori dell’Istituto Centrale per la Ricerca Scientifica e Tecnologica Applicata al mare, un’area contenente armi convenzionali e chimiche alla profondità di 230 metri, su un’area estesa approssimativamente 10 miglia nautiche. Sempre al largo del Promontorio garganico è stata individuata dagli operatori dell’Icram, e confermata grazie alle interviste coi pescatori, la presenza di armi chimiche con iprite a profondità variabile tra i 200 e i 400 metri, su una estensione di circa 14 x 29 miglia nautiche, distante dalla costa di Vieste approssimativamente 30 miglia nautiche (circa 55 km). Un’altra area di forma circolare, nelle acque del Gargano, è segnata sulle carte nautiche come discarica di armi e munizioni inesplose: profondità 50 metri, distanza dal centro dell’area alla costa di Vieste approssimativamente 5,5 miglia nautiche (poco più di 10 km), raggio dell’area 1,4 miglia nautiche (2,7 km circa). Per quanto riguarda gli effetti sull’ambiente marino delle sostanze chimiche contenute nei residuati bellici, grazie al progetto ACAB (Armi Chimiche Affondate e Benthos) realizzato dall’ICRAM (Istituto Centrale per la Ricerca scientifica e tecnologica Applicata al Mare) e al progettoREDCOD (Research on Environmental Damage caused by Chemical Ordnance Dumped at sea), nato da una collaborazione - tra l’Istituto Centrale per la Ricerca Scientifica e tecnologica Applicata al Mare, il Consorzio Nazionale Interuniversitario per le Scienze del Mare, il Dipartimento di Scienze Ambientali dell’Università di Siena, l’Istituto di Biomedicina e di Immunologia Molecolare del Consiglio Nazionale delle Ricerche e il Centro Tecnico Logistico Interforce NBC - pubblicato nell’ottobre del 2006, la comunità scientifica dispone di dati attendibili che preoccupano gli studiosi. 

Da un punto di vista generale, gli alti livelli di arsenico rintracciati negli organismi marini pongono serissimi interrogativi sulla salute umana. Gli studiosi non escludono che le cause dell’elevata presenza di arsenico riscontrata nelle aree di studio siano dovute esclusivamente agli ordigni inesplosi adagiati sui fondali marini. Non sono state rilevate tracce di iprite negli organismi marini, e questo è dovuto probabilmente al rapido passaggio nella circolazione sanguigna. 

Il professor Giorgio Assennato, ex direttore dell’Istituto di Medicina del lavoro di Bari ed attuale direttore dell’Arpa Puglia, avverte: «Le conseguenze della guerra di oltre mezzo secolo fa ricadono ancora oggi sulla gente di mare. Sono caduti nel vuoto però gli avvertimenti della comunità scientifica internazionale che da tempo ha messo in luce le conseguenze di lungo periodo e l’alto rischio cancerogeno». 

La National Academy of Science aveva pubblicato nel ’93 una monografia sull’iprite intitolata Veterans at risk. L’attualità del gas era legata al fatto che in quegli anni alcune riviste mediche come il Journal of the American Medical Association e Nature avevano denunciato la sperimentazione fatta dai governi sui propri soldati all’inizio della seconda guerra mondiale. Il prezzo più elevato valutato in perdita di salute e di vita viene costantemente pagato dalle ignare popolazioni...

Ma è possibile che una riserva naturale marina con fondali cristallini e una varietà di flora e fauna unica nel Mediterraneo covi un arsenale esplosivo? Pianosa è la più remota dell’arcipelago delle Diomedee — da cui dista 12 miglia —, ultimo lembo di suolo italiano prima del confine con le acque internazionali e, poco oltre, con quelle della Croazia, si staglia a 18 miglia dal Gargano. La minuscola e disabitata isola prende il nome dal suo inconfondibile aspetto pianeggiante. Dal 14 luglio 1989 è zona A, area di maggior integrità e rispetto ambientale: il cuore delle Diomedee. Attualmente numerosi involucri esplosivi inclusi quelli risalenti al recente conflitto nei Balcani perdono il loro micidiale contenuto, alterando l’habitat marino con gravi conseguenze ambientali e sanitarie. La scoperta è dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale che ha censito una minima parte degli ordigni. «Le indagini hanno evidenziato un notevole stress per gli animali marini campionati — rivela Luigi Alcaro, ricercatore dell’Ispra —, segni di sofferenza e alterazioni a livello biochimico e istologico che possono essere diretta conseguenza del Tnt disperso dalle bombe». Il Tnt, secondo la letteratura scientifica, è un composto solido, giallo e inodore prodotto dalla combinazione di acido nitrico e solforico. Numerosi studi hanno dimostrato la tossicità di questa sostanza sull’organismo umano che si manifesta a diversi livelli provocando epatite e anemia emolitica, danni all’apparato respiratorio, eritemi e dermatiti. Inoltre, il Tnt è stato qualificato a livello internazionale anche come potenziale agente cancerogeno. Un esame più attento mostra sul suolo tracce dell’impatto di bombe costituite da metallo fuso sulla roccia. Il problema è noto da tempo; in merito all'inquinamento bellico e ai rischi derivanti per la navigazione vi è anche una successiva ordinanza della Capitaneria di Porto di Manfredonia (n.16 del 3 giugno 1991). Dopo anni passati in fondo al mare le bombe iniziano a sgretolarsi e disperdere le sostanze nocive. Gli ordigni contengono, infatti, il Tnt, che è un composto solido, giallo e inodore prodotto dalla combinazione di acido nitrico e solforico. Ed è altamente nocivo per tutti gli esseri viventi. Numerosi studi scientifici condotti su operai delle fabbriche di armi hanno dimostrato la tossicità di questa sostanza sull’organismo umano che si manifesta a vari livelli provocando epatite e anemia emolitica, danni all’apparato respiratorio, eritemi e dermatiti. Effetti nocivi sono stati rilevati anche su animali di laboratorio: ratti e cani nutriti con cibo contenente Tnt hanno evidenziato tremori e convulsioni. Il Tnt è stato qualificato anche come un potenziale agente cancerogeno. I ricercatori dell’Ispra hanno scelto proprio Pianosa per approfondire le ricerche e lo hanno fatto analizzando mitili, ricci e un pesce stanziale che vive a contatto con il fondo: il grongo. «Le indagini - riferisce Luigi Alcaro, ricercatore dell’Ispra che ha soggiornato per qualche tempo sull’isola - hanno evidenziato un notevole stress per gli animali marini campionati, segni di sofferenza e alterazioni a livello biochimico e istologico che possono essere diretta conseguenza del Tnt disperso dalle bombe». Possibile che almeno le autorità locali non sapessero nulla? Almeno il prefetto di Foggia, Antonio Nunziante, è stato debitamente informato, ma inspiegabilmente non ha adottato alcun provvedimento cautelativo per tutelare l’incolumità pubblica. 

Comunque, presso la Capitaneria di Porto di Manfredonia, in provincia di Foggia, scoviamo un faldone impolverato con l’ordinanza numero 27, risalente al 18 ottobre 1972. Il documento, firmato dal tenente colonnello Mariano Salemme, rende noto che «Nella zona di mare circostante l’isola di Pianosa, per una profondità di metri 100, sono depositate su fondo marino un numero imprecisato di bombe aeree che rendono quella zona pericolosa alla navigazione, ancoraggio e sosta di qualsiasi natante, la pesca, la pesca subacquea e la balneazione». Pertanto «Dalla data odierna fino a nuovo ordine, nella zona di mare sopra indicata per una profondità di mare di metri 500 (cinquecento) è vietata la navigazione, l’ancoraggio e la sosta di qualsiasi natante, la pesca, la pesca subacquea e la balneazione». Strano. Il Portolano della navigazione non fa menzione degli ordigni, e neppure le carte nautiche più aggiornate. Sull’isola e attorno ad essa è vietata «l’alterazione con qualsiasi mezzo dell’ambiente geofisico o delle caratteristiche biochimiche dell’acqua, nonché l’introduzione di armi, esplosivi e di qualsiasi mezzo distruttivo o di cattura, nonché sostanze tossiche o inquinanti», stabilisce il decreto interministeriale del 14 luglio 1989. Non è tutto. Sulla scogliera fa bella mostra un ordigno inesploso risalente alla guerra nei Balcani. Un esame più attento mostra al suolo tracce di deflagrazioni costituite da metallo fuso sulla roccia. Ma il Governo non interviene? Interpellati, i ministri dell’Ambiente (Prestigiacomo) e della Difesa (La Russa) tacciono inspiegabilmente. L’unica risposta istituzionale risale al 14 ottobre 2005, quando il ministro della Difesa, Antonio Martino, si limitò ad ammettere «il rinvenimento di un numero imprecisato di ordigni bellici risalenti alla seconda guerra mondiale» senza comunque predisporre la bonifica dei fondali. C’è un rischio effettivo in quest’area dal pregevole e fragile habitat, scarsamente controllata dalla guardia costiera? «Nelle acque di Pianosa operano abitualmente pescatori di frodo e in prossimità dell’isola transitano petroliere e spesso gettano l’ancora natanti fuoribordo, circostanze che rendono possibile l’esplosione degli ordigni una volta che essi venissero a contatto con gli scafi», attesta l’interrogazione parlamentare (4-10469) indirizzata il 13 luglio 2004 da Mauro Bulgarelli ai ministri dell’Ambiente e della Difesa. Il deputato dei Verdi aveva chiesto inoltre: «quali iniziative si intendano adottare per rimuovere nel più breve tempo possibile gli ordigni giacenti sui fondali, fonti di gravissimo pericolo per l’ecosistema, per la navigazione e la salute delle popolazioni dell’arcipelago delle Tremiti?». Chi ha bombardato l’isola ad un soffio dal Gargano? Un’ inchiesta della Marina militare italiana ha accertato la responsabilità degli USA. «Ci sono anche bombe non convenzionali, all’iprite e al fosforo. È un retaggio dell’ultimo conflitto mondiale: l’isola servì agli Alleati quale campo di tiro per l’Aeronautica, che peraltro distrusse il faro, i pozzi e i rifugi dei pescatori», rivela l’anziano Raffaele Occhionero, testimone oculare dell’evento in veste di interprete presso il comando anglo-americano di stanza a Manfredonia. Una nota del capitano di fregata Domenico Picone, datata 13 gennaio 1996, rivela: «sui fondali dello specchio di mare circostante l’Isola di Pianosa, che è classificata “zona di riserva integrale” della Riserva marina Isole Tremiti, in una fascia ampia circa cento metri dalla costa stessa, sono state a suo tempo identificate n. 48 bombe d’aereo (oltre alla probabile esistenza di altre nascoste dalla vegetazione) risalenti alla 2ª guerra mondiale». L’alto ufficiale insisteva: «Lo scrivente ha più volte interessato vari Organismi della Marina Militare, nonché il Ministero dei Trasporti e della Navigazione per la rimozione dei suddetti ordigni bellici, sia allo scopo di eliminare lo stato di potenziale pericolosità per la pubblica incolumità, sia al fine di rendere fruibili gli specchi acquei dell’isola di Pianosa». Le più alte sfere dello Stato giocano ancora allo scaricabarile?...  

 «Non sarebbe il caso di applicare «il principio di chi inquina paga?» chiede Elisabetta Zamparutti, deputato dell’opposizione in Commissione Ambiente. Magari i responsabili potrebbero essere indotti dallo Stato italiano a farsi carico dei danni sociali ed ambientali prodotti, causati dall’affondamento indiscriminato di questi ordigni bellici e della loro lunga permanenza in un habitat marino che tutto il mondo ci invidia. La Convenzione internazionale di Ginevra del 1925 proibiva «l’uso in guerra di gas asfissianti, tossici o simili, nonché di tutti i liquidi, materiali o procedimenti analoghi». Questo Protocollo non vietava la produzione e l’immagazzinamento di armi chimiche e non escludeva l’uso dei gas asfissianti come rappresaglia a un eventuale attacco militare con l’uso di armi chimiche. Ciò spiega la presenza sul territorio pugliese, durante la 2ª Guerra Mondiale, di un vastissimo arsenale alleato. La Convenzione sulla loro proibizione firmata a Parigi il 13 gennaio 1993 stabilisce che tutti gli Stati Membri devono procedere alla distruzione di tutte le armi chimiche nei territori sotto la loro giurisdizione; devono, inoltre, provvedere alla rimozione delle armi lasciate sul territorio di altri Stati. Queste disposizioni non si applicano «a discrezione dello Stato Parte, alle armi chimiche sotterrate nel suo territorio anteriormente al 1° gennaio 1977 e che rimangono sotterrate, o che sono state scaricate in mare anteriormente al 1° gennaio 1985». Il recupero delle armi chimiche rilasciate in mare è di assoluta responsabilità dello Stato che effettua il recupero, senza distinzione tra acque territoriali o internazionali. La Convenzione di Parigi non affronta l’impatto sull’ambiente delle sostanze chimiche rilasciate dagli ordigni inesplosi. Gli esperti affermano tuttavia l’assoluta necessità di localizzare i luoghi dove si trovano le armi chimiche, approntare studi ecologici per valutarne l’impatto sull’ambiente e raccogliere informazioni sullo stato di corrosione delle munizioni. Nel suo mare è vietata «l’alterazione con qualsiasi mezzo dell’ambiente geofisico o delle caratteristiche biochimiche dell’acqua, nonché l’introduzione di armi, esplosivi e di qualsiasi mezzo distruttivo o di cattura, nonché sostanze tossiche o inquinanti» attesta un decreto interministeriale. I fondali cristallini presentano una varietà di flora e fauna marina unica nel Mediterraneo; ma conservano un segreto esplosivo. 

Nel 2005, in risposta ad un’interrogazione parlamentare (numero 4-10237), il ministro della Difesa Antonio Martino ebbe a riferire giocando al ribasso — versione Ponzio Pilato - senza adottare alcun provvedimento: «Relativamente agli ordigni bellici affondati in basso Adriatico, risalenti alla seconda guerra mondiale, l’Istituto Centrale per la Ricerca Scientifica e Tecnologica Applicata al Mare (ICRAM) ha condotto, su commissione del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio, tra dicembre 1997 e ottobre 1999, un programma di ricerca denominato A.C.A.B. (Armi Chimiche Affondate e Benthos), volto a localizzare le aree di fondale interessate dalla presenza di residuati bellici a carica chimica, ad accertarne lo stato di conservazione ed a valutare i rischi ambientali. Il programma ha visto la partecipazione anche del Consorzio Nazionale inter-universitario per la Scienza del Mare (Co.Ni.S.Ma.) e dello Stabilimento militare Materiali Difesa nucleare Batteriologica e Chimica di Civitavecchia. Il citato Istituto, che ha, tra l’altro, pubblicato un manuale illustrativo delle misure precauzionali da adottare in caso di recupero di tali residuati, ha in atto anche il cosiddetto progetto RED COD (Research on Environmental Demage caused by Chemical Ordnance Dumped at sea), finanziato dalla Commissione Europea, per approfondire le conseguenze derivanti dai residuati bellici giacenti sui fondali dell’area interessata. Solo a conclusione di tale studio (dicembre 2005) verranno valutate le opportune iniziative e le specifiche competenze dei diversi Enti Istituzionali coinvolti nella problematica. Ciò premesso, in merito alle attività di bonifica del fondo marino da ordigni (ovvero, materiali esplodenti ad essi assimilabili), preme sottolineare, in generale, come la normativa vigente stabilisca che interventi di tale natura siano suddivisi in occasionali e sistematici. In particolare, è previsto che: la bonifica occasionale sia effettuata a seguito di ritrovamento di ordigni esplosivi e limitatamente all’intervento su di essi e per motivi connessi con la salvaguardia della pubblica incolumità; la bonifica sistematica sia effettuata, a scopo preventivo, nelle aree dove si presuppone la presenza di ordigni nascosti da fenomeni naturali o, comunque, non individuabili a vista. L’urgenza dell’intervento non può, comunque, prescindere da considerazioni di effettiva sussistenza del rischio per l’incolumità pubblica in mare, secondo una scala di priorità che colloca all’ultimo posto interventi su pericoli considerati solo potenziali. Peraltro, fatta salva la competenza dell’autorità del Governo a richiedere in ogni caso l’intervento di bonifica, per le bonifiche di carattere occasionale potrà essere richiesta l'azione di reparti militari specializzati per il tramite dell’Autorità militare territorialmente competente. Nel caso, invece, di bonifiche sistematiche, la Prefettura - così come disposto dal Dipartimento della Protezione Civile in data 16 maggio 1996 - si dovrà avvalere, di massima, di ditte specializzate, in possesso di specifici requisiti, coinvolgendo eventualmente l’apparato militare solo in operazioni preventive di ricognizione delle aree da bonificare, atte a valutare fattibilità e stima dei costi e, se necessario, nella fase finale di alienazione e distruzione degli ordigni. Con specifico riferimento alla bonifica dei fondali delle acque prospicienti l’isola di Pianosa, auspicata dall'interrogante, si rileva che nel 1972, a seguito del rinvenimento di un numero imprecisato di ordigni bellici risalenti alla seconda guerra mondiale, è stata effettuata dal Nucleo Sminamento Difesa Antimezzi Insidiosi (SDAI) della Marina Militare la relativa bonifica che, però, non è stata portata a termine per le intervenute proteste degli abitanti. Per tale motivo è stata emanata l’ordinanza n. 27 del 1972, cui è cenno nella premessa all’atto, con la quale è stata vietata qualsiasi attività per un raggio di 500 metri dalla costa, nella zona antistante l’isola. Al riguardo, si precisa che l’ordinanza del Capo del Circondario Marittimo ha la funzione di regolare determinate situazioni connesse a specifici avvenimenti caratterizzati da peculiarità contingenti e, quindi, in astratto, non estensibili ad ogni fattispecie; la stessa rimane, comunque, valida ed applicabile per espressa previsione delle prescrizioni in essa contenute. Successivamente, la Capitaneria di porto di Manfredonia ha interessato il competente Ufficio territoriale del Governo, al fine di provvedere allo stanziamento dei fondi necessari per la bonifica. Richiesta, peraltro, reiterata in tempi diversi. Le iniziative della Capitaneria di porto di Manfredonia sono state condivise dallo stesso Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e dall’Ente Parco del Gargano, proprio in ragione della complessità e del carattere di sistematicità che assume l’intervento. Nel merito, il Comando in Capo del Dipartimento Militare Marittimo di Ancona ha condotto uno studio di fattibilità, con il quale sono state individuate le modalità tecnico-operative inerenti all’eventuale intervento di bonifica dell'area circostante l’isola. Le risultanze di tale studio sono state partecipate alla competente Prefettura, auspicando l’avvio delle azioni necessarie alla risoluzione della problematica. Quanto all’applicazione del principio «chi inquina paga», il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio ha comunicato che, non appena disporrà di materiale probatorio rilevante, tale da risalire con certezza agli autori dei fatti di cui trattasi, nonché di documentazione attestante la sussistenza e l’entità dei danni arrecati alle risorse marine, valuterà se sussistono i presupposti per attivare le procedure finalizzate ad ottenere il risarcimento del pregiudizio arrecato, ai sensi dell'articolo 18 della legge n. 349 del 1986. Si aggiunge, in ultimo, con riferimento al rilascio di ordigni da parte di aerei NATO «in emergenza», nel corso di operazioni militari in Kosovo, che il Governo ha disposto l’esecuzione delle operazioni di bonifica riguardanti l’intero bacino del Mare Adriatico e che tali attività sono state svolte dalla Marina militare italiana e da unità NATO nel periodo compreso tra il 1999 ed il 2001...

Non si tratta di residuati bellici dell’ultima guerra mondiale. Sonnecchiano sui fondali ed ogni tanto da Grado a Gallipoli, solleticati dalle correnti o dalla pesca accidentale, fanno capolino sulle spiagge e i litorali: proiettili all’uranio sporco, cluster bomb, missili Tomahawk, granate al fosforo, bombe a guida laser, a volte addirittura siluri. La Marina militare italiana un decennio fa aveva assicurato la bonifica, promessa da vari Governi, mentre in Parlamento centinaia di interrogazioni attendono risposte esaurienti da più di mezzo secolo. 

Il 18 giugno 1999, l’ammiraglio Umberto Guarnieri in qualità di capo di Stato Maggiore della Marina Militare, aveva dichiarato al Tg 3 nazionale, smentito in diretta dalle evidenze:

«La Marina sta lavorando nell’area più a nord, che è la zona più pericolosa su un fondale di tre metri. Oltre a bonificare la zona propriamente detta è stato bonificato un canale che dalla zona va al porto di Chioggia. In queste aree ci sono due tipi di bombe: bombette che derivano dall’apertura di cluster bomb, oppure bombe normali d’aereo. Le bombette contenute nelle cluster bomb non possono essere spostate. Tant’è vero che un magistrato ne voleva alcuni esemplari per completare la sua inchiesta, ma noi gli abbiamo detto che era rischioso prelevarle e portargliele. Le abbiamo localizzate, fra tutte 24, e credo che oggi cominceranno a controminare le bombe non trasportabili per farle saltare in aria. Quelle che saranno fatte deflagrare sul posto, lo saranno con una tecnica innovativa creando intorno alle bombe una camera d’aria, contro la quale s’infrange l’onda d’urto, barriera che preliminarmente spaventa i pesci e quindi li allontana»...


Le conseguenze belliche sono ricadute in prima battuta sulla gente di mare, infine, a chiudere il cerchio della morte programmata, sulle popolazioni ignare. Sono sprofondati nel vuoto, però, gli avvertimenti della comunità scientifica internazionale che aveva messo in luce le conseguenze di lungo periodo e l’elevato rischio cancerogeno, genotossico e mutageno. Nel frattempo, chi nel mare ci lavora giorno e notte sovente ci rimette la vita nel silenzio generale...

   “Bombe in Adriatico: la NATO si scusa”, titolava il 17 maggio 1997 il quotidiano La Repubblica. «Sì, la Nato ammette tutto e chiede scusa all’Italia: le bombe inesplose trovate nell’Adriatico sono state sganciate dai caccia dell’Alleanza. Da Bruxelles arriva il mea culpa nelle parole del portavoce, Jamie Shea:  «Ora abbiamo informato, dettagliatamente, il governo italiano, cosa che in precedenza non avevamo fatto. I dettagli erano stati forniti dai piloti ai rispettivi comandi, ma le informazioni non erano state comunicate a chi di dovere. L’Alleanza sta comunque conducendo delle indagini per stabilire se ci siano state delle mancanze e degli errori nelle operazioni di “abbandono” dei missili e delle bombe non utilizzate». In altri termini, l’Alleanza ammette l’errore, fa marcia indietro di fronte alle proteste di Palazzo Chigi, con Solana che oggi ha personalmente telefonato a Massimo D’Alema. «Abbiamo ottenuto quello che volevamo», è scritto in una nota di Palazzo Chigi. Tutto risolto, insomma, anche se c’è da registrare il durissimo commento del ministro degli Esteri Lamberto Dini che attacca in particolar modo il portavoce Shea: «La nostra reazione, come si dimostra ora, era assolutamente giustificata, viste le scuse della Nato (…) sarebbero sei le zone scelte dalla Nato per il rilascio degli ordigni. Per evitare altri incidenti — nei giorni scorsi una bomba esplose, provocando tre feriti — secondo la procedura e gli accordi internazionali i pescatori e tutte le imbarcazioni vengono avvisate da annunci radio delle zone pericolose. Le aree, che hanno un diametro pari a 18 chilometri, non coincidono né con le aerovie civili né  con quelle navali di carattere militare e si trovano su una sorta di linea mediana che taglia in verticale l’Adriatico, tra la costa italiana e quella croata, montenegrina, albanese e greca. 

Ecco la mappa delle zone a rischio, quelle nelle quali la capitaneria ha sconsigliato le operazioni di pesca: a nord Chioggia e la città croata di Parenzo (10 miglia nautiche, fondale 32 metri); tra Rimini e la città di Lussino (fondale di 50 metri); tra Pesaro e Zara (79 metri); tra Bari e Durazzo (ma il fondale raggiunge i 400 metri); e più in giù nella Penisola, tra Brindisi e Pojah e Santa Maria di Leuca e Corfù (800 metri di fondale)». Scenario congelato? Il gioco delle correnti sposta e rimescola il contenuto delle acque marine. Golfo di Trieste e laguna di Venezia sono i principali bersagli di affondamento a settentrione anche per i velivoli Nato (a capacità di bombardamento nucleare, compresi i Tornado dell’Aeronautica italiana) stanziati ad Aviano e Ghedi. In quell’area marittima si movimentano ogni anno ben 30 milioni di tonnellate di greggio. In un’interrogazione parlamentare, rivolta il 22 settembre 2004 da Franco Danieli al presidente del Consiglio dei Ministri, si menziona la presenza in Adriatico oltre che di «residuati chimici della seconda guerra mondiale di produzione Usa», proibiti dalla Convenzione di Ginevra del 1925, soprattutto di «bombe a grappolo del tipo blu 27 e proiettili all’uranio impoverito». Il premier Silvio Berlusconi non ha mai risposto; né tantomeno il suo successore Romano Prodi si è sentito in obbligo di fornire una minima spiegazione. Il senatore Danieli con dovizia di prove fa riferimento anche al fatto che «ancora oggi, in alcune zone, oltre le 12 miglia marine (ad esempio al largo di Fasano in Puglia e Cupra al largo di Cupramarittima nelle Marche) vengono rilasciate in mare bombe o serbatoi ausiliari da aerei militari italiani in emergenza». Al capo di Stato Maggiore della Difesa, La Rosa, chiede spiegazioni, ma l’ammiraglio nega un chiarimento. Ad ogni buon conto il 25 maggio 1999 la poco nota deliberazione 239 del Consiglio regionale delle Marche prendeva atto che «in questo ultimo periodo è continuato lo sganciamento di bombe da parte di aerei Nato nell’Adriatico, anche a ridosso della costa marchigiana». Già allora l’assise regionale considerava «il grave danno arrecato all’ecosistema marino, e paventava il pericolo di esplosioni a danno dei lavoratori della pesca». Altre singolarità. È stata la Pravda (versione online) tra i primi al mondo a dare la notizia: «Affonda peschereccio nell’Adriatico: 3 dispersi». Quello che allora sorprese  fu l’insolito interessamento manifestato dal ministro degli Esteri. Massimo D’Alema in persona inviò al sindaco Giovanni Gaspari un telegramma di solidarietà alle famiglie dei marinai deceduti, alla marineria e alla città di San Benedetto. Semplice cortesia? Che ragione c’era? Istituzionalmente nessuna. Tant’è che per l’affondamento tra le Marche e l’Abruzzo di un altro peschereccio, il “Vito Padre” il 30 maggio (2 vittime), il titolare all’epoca della Farnesina non si era scomodato.  Quei bontemponi dello Stato maggiore Difesa avranno pensato, come al solito, che è meglio non far sapere nulla all’opinione pubblica a proposito dei rischi e dei pericoli che si annidano in questo mare disseminato di bombe. Infatti, l’Adriatico, sordo alle ragioni di Stato e agli accordi segreti dei nostri militari con il governo degli Stati Uniti d’America, seguita imperterrito a vomitare proiettili all’uranio impoverito abbandonati dagli aerei Usa “A-10”, soprattutto a sud (erano di stanza a Gioia del Colle). Ma non solo: emergono saltuariamente, senza però raggiungere la ribalta della cronaca nazionale, anche bombe a grappolo (cluster) e al fosforo di fabbricazione Usa. «Quei cosi li peschiamo un giorno sì e l’altro pure — rivela Nicola, che chiede l’anonimato perché non vuole problemi —. Se avvertiamo le Capitanerie passiamo un guaio. Meglio ributtarli in acqua». Gli ordigni sonnecchiano sul fondo marino. Finora la Nato non è riuscita a spiegare come mai le bombe intelligenti sono diventate all’improvviso così stupide. In situazioni d’emergenza i bombardieri alleati avrebbero dovuto gettarle per sicurezza ad almeno 70 miglia dalla costa, nelle cosiddette “jettison areas”. Invece un ordigno con la scritta “U.S. 97” era affiorato nella laguna di Marano, ad appena 6 miglia dalle foci del Tagliamento, fra Grado e Lignano Sabbiadoro. «E lì il fondale non supera i 17 metri» assicura Giuseppe, che sul suo peschereccio s’è trovato la bomba di 80 centimetri impigliata nelle reti. Sono imprevedibili: possono essere ovunque, grazie al gioco delle correnti. Basta allungare lo sguardo, oltre il manto dell’acqua, per distinguere i letali cilindri metallici. «Bombe sono», ripete Antonio di Pescara, volto marchiato dal sole come quello degli altri colleghi. Alcuni ufficiali della Marina confermano le dichiarazioni dei pescatori, che da Trieste ad Otranto ormai convivono con questi indesiderati ospiti e l’intenso traffico di petroliere, fino al prossimo incidente. Il bollettino di guerra prosegue con 30 bombe non a grappolo ripescate nel golfo di Venezia. Nel Medio e Basso Adriatico i piloti NATO hanno avuto pochi scrupoli. Tra Pesaro e Ancona, nei paraggi delle piattaforme metanifere, dalle quali il gas raggiunge la raffineria Api di Falconara, si sono liberati di «tre ordigni a grappolo e di una decina di bombe a guida laser, lunghe quasi tre metri e mezzo e pesanti una tonnellata», precisano i dati delle capitanerie di porto marchigiane. Mentre più a sud, a lambire la “Montagna del Sole” (Rodi Garganico, San Menaio, Calenella), sono approdate 3 bombe al fosforo di fabbricazione americana. I cacciamine? Chi li ha visti? Nel Salento, cittadini ed istituzioni locali hanno iniziato a far sentire le proprie ragioni. Lo “Sportello dei diritti” della provincia di Lecce, infatti, aveva lanciato una campagna di sensibilizzazione. «La guerra nei Balcani ha aggravato la situazione, già preoccupante a causa della presenza di ordigni imbottiti di iprite e fosgene — osserva Carlo Madaro —. La questione più paradossale è il rimbalzare di competenze tra apparati dello Stato, concretizzatosi in un indecoroso scaricabarile tra ministri e ministeri. Per questi motivi — conclude Madaro — lo “Sportello dei Diritti” della provincia di Lecce ritiene doveroso rilanciare la questione del disinquinamento dell’Adriatico dai pericolosi ordigni e residuati bellici, nel silenzio dei mezzi di informazione, ed interverrà presso tutte le competenti sedi ed in particolare presso il nuovo Governo affinché la questione sia valutata sotto un’ottica unitaria e sia implementata una bonifica globale delle acque del nostro preziosissimo mare». Una miriade di interrogazioni parlamentari sottolineano che «gli interventi di bonifica delle acque del mar Adriatico conclusesi nell’agosto 2001, nonostante le dichiarazioni dei vertici della Marina militare, che garantirono il raggiungimento di un grande coefficiente di sicurezza, lasciarono gravi ombre su tutta l’operazione, contraddistinta sia dal segreto militare che da un’evidente impreparazione ad affrontare un’emergenza prevista e determinata dagli stessi organismi militari». A proposito di «uranio impoverito», la senatrice Celeste Nardini aveva chiesto al ministro della Difesa Parisi, «se il Governo non ritenga necessario assicurare un impegno straordinario per la bonifica delle aree contaminate al largo delle coste pugliesi e per misure di protezione sanitaria delle popolazioni». La parlamentare di Rifondazione intendeva anche sapere «se il Governo intenda impegnarsi da subito per la messa al bando di tutte le armi all’uranio impoverito, iniziando unilateralmente a vietarne l’uso nei poligoni d’addestramento e lo stoccaggio nelle basi militari, anche internazionali, collocate sul territorio nazionale». Mai pervenute risposte. La Convenzione di Barcellona, dal 1995, non consente la discarica definitiva a mare, nel Mediterraneo, di materiali che possono costituire pericolo per l’ambiente marino, per l’attività di pesca e per la navigazione, e quindi l’abbandono definitivo di bombe o materiale esplosivo. Rilasci di tali materiali, accidentali o motivati da condizioni di emergenza o da incidenti, devono comportare azioni di recupero, messa in sicurezza e bonifica delle aree interessate con verifica dei danni e conseguente azione di risanamento. «Non è possibile pensare che i ministri europei non sapessero nulla dell’uso di proiettili all’uranio impoverito» afferma Massimo Cocchi, docente di biochimica della Nutrizione allo Scottish Agricultural College di Edimburgo. Nel 1999, una lettera aperta inviata dall’allora ministro federale dell’Agricoltura della Repubblica Jugoslava, Jagos Zelenovic, ai colleghi dei Paesi dell’Unione europea, denunciava il disastro ecologico causato dai ripetuti raid aerei della Nato. In particolare si segnalava l’uso sistematico di proiettili all’uranio impoverito da parte dei cacciabombardieri statunitensi A-10. «Per i prossimi 50 anni ne pagheremo le conseguenze» insiste il professor Cocchi. Danni ambientali la cui entità è stata dimenticata, ben sapendo che l’effetto del disastro causato non è immediato. Documenti ufficiali della NATO dimostrano come fosse evidente, fin dai raid contro la Bosnia del ’95, l’utilizzo dell’uranio sporco. L’operazione venne battezzata “Deliberate Force”, e un lungo rapporto descrive nei dettagli gli 11 giorni di bombardamenti, fra l’agosto ed il settembre ’95. La relazione è presente alla biblioteca pubblica della marina degli Usa e sul sito di Afsouth, il comando NATO per il Sud Europa con sede a Bagnoli, fin dal 1997, e venne rese nota nell’ottobre ’95. Il vicecomandante della base era il generale italiano Duilio Mambrini. Nell’allegato 2 del rapporto vengono elencati, divisi per nazionalità, le decine di aerei che parteciparono alle missioni sui cieli della Bosnia. Gli USA, che hanno compiuto 2.318 sortite (65,9 per cento del totale), schieravano ad Aviano uno squadrone di 12 ammazzacarri “A-10”. Il rapporto elenca, nell’allegato 3, genere e numero di ordigni utilizzati, compresi 10.086 proiettili “Pgu-14 Api” (fabbricazione Oerlikon-Contraves: soci finanziari della Barilla), imbottiti d’uranio sporco. Il dato si differenzia dal totale rivelato dal ministro Mattarella, di 10.800 colpi, perché mancano i dardi utilizzati durante la precedente operazione “Deny flight” nel ’94. I generali italiani sapevano. Il generale Andrea Fornasiero (ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica) il 29 agosto ’95 riceveva dalla NATO l’ordine di eseguire il piano d’attacco sulla Bosnia. Fornasiero era il Comfiveataf, ossia il comandante della V Forza aerea tattica alleata a Vicenza, responsabile per la pianificazione e la gestione dei bombardamenti sulla Jugoslavia. «L’aumentata incidenza di alcuni tipi di cancro e malformazioni genetiche verificatasi negli anni successivi alla guerra del Golfo nel sud dell’Iraq è ormai accertata»...  

Per le bombe inesplose e sganciate nell’Adriatico, il ricercatore calcola che «1 km cubico di acqua marina contenga circa 3 tonnellate di uranio». Si può quindi osservare che una bomba inesplosa rappresenta  un pericolo notevole per la sua carica esplosiva. «Gran parte della letteratura scientifica - dice Mauro Cristaldi, docente del Dipartimento di biologia animale dell’università La Sapienza di Roma - evidenzia i danni da contaminazione da uranio impoverito e contrasta la minimalizzazione del rischio portata avanti dai governi e dalla stessa IAEA (International Atomic Energy Agency)». .. 

Era bella la mia guerra. «Voglio confermare dinanzi al Parlamento che il contributo specifico delle Forze armate italiane è limitato alle attività di difesa integrata del territorio nazionale». Così parlò Massimo D’Alema, presidente del Consiglio, il 26 marzo 1999, ovvero il secondo giorno di guerra in Kosovo e Serbia. «Vengo qui in Parlamento a dire le cose come stanno, e soprattutto cosa il Governo possa realisticamente fare, e non a indicare equilibri alchemici o a ricercare soluzioni verbali. Potremmo annunciare che ci ritiriamo, ma non possiamo decidere da soli di sospendere la guerra. Perché per farlo serve l’intesa con la Nato, i serbi, l’Uck». Così si espresse il premier Massimo: il calendario segnava il 19 maggio. Dopo 58 giorni di guerra italiana all’ex Jugoslavia, i velivoli dell’Aeronautica militare avevano già compiuto un migliaio di sortite bombardando gli obiettivi nella regione di Pristina e le colonne del terzo Corpo d’Armata serbo tra Nis e il Kosovo. In sostanza, benché il governo continuasse a blaterare di “difesa integrata”, i top gun italiani erano in pieno conflitto bellico. Ponti, caserme, edifici pubblici, ferrovie e strade sono stati colpiti anche dai nostri aerei. L’Aeronautica militare italiana ha partecipato a tutte le operazioni di bombardamento pianificate dal Comando della Nato e gestite dalla Quinta Ataf (Allied tactical air force) di Vicenza. Con ben 54 jet messi a disposizione della Nato, l’Aeronautica tricolore è stata la più importante forza aerea coinvolta nelle operazioni belliche, seconda soltanto allo schieramento degli Stati Uniti d’America...  

In qualche caso i velivoli italiani sono rientrati alla base senza aver potuto sganciare il loro micidiale carico, a causa del maltempo, o semplicemente perché i bersagli erano stati distrutti da altri aerei. Ovviamente, non prima di essersene liberati nell’Adriatico. Per saperne qualcosa di più è sufficiente guardare un filmato della CNN che l’8 maggio 1999 ha trasmesso un briefing del generale Wald dell’Usaf, durante il quale sono state mostrate le immagini di un deposito di munizioni dell’esercito serbo in Kosovo mentre veniva centrato da una bomba a guida laser, lanciata da un Tornado italiano. L’alto ufficiale americano ha colto l’occasione per esprimere apprezzamento e soddisfazione per l’impegno e la precisione dei piloti italiani, complimenti ribaditi durante la sua visita a Gioia del Colle, in provincia di Bari, dallo stesso generale Wesley Clark. Dai partner atlantici D’Alema ha ottenuto chiarimenti e piena soddisfazione, a suo dire, sulla questione delle bombe buttate in Adriatico dai piloti alleati. Per la prima volta la NATO ha comunicato all’Italia il numero esatto, 143 ordigni, e le coordinate delle aree nella quali sono state rilasciate. Peccato che la cifra sia abbondantemente sottostimata, come hanno evidenziato in seguito, ed attualmente a distanza di 8 anni, i numerosi ritrovamenti. Da Bruxelles, ai cronisti il presidente del Consiglio ebbe a dire che «ora l’Italia è in grado di valutare in modo compiuto la pericolosità di questo fenomeno, che ha creato allarme nel Paese». Secondo D’Alema, «le bombe nell’Adriatico certamente non rappresentano un pericolo per il turismo, perché sono state rilasciate ad una distanza minima di 30 miglia dalla costa». Da Solana, in quell’occasione (20 maggio ’99) giunse la promessa, non mantenuta, che la «Nato parteciperà alla bonifica dell’Adriatico, inviando dei dragamine alleati nelle aree di scarico degli ordigni». 

Nel 2000, la Commissione ambiente del Senato, su proposta del senatore diessino Lorenzo Forcieri, approvò un provvedimento che prevedeva “l’affondamento nei mari italiani di relitti militari e carcasse di navi e cargo per trasformarle in percorsi turistici sottomarini per subacquei”. Il governo italiano sapeva anche dell’uranio sporco. Nella seduta del Senato del 27 luglio ’99, nel corso della quale si discuteva la conversione in legge del decreto che prorogava la missione italiana nei territori dell’ex Jugoslavia, la senatrice diessina Tana De Zulueta prese la parola per chiedere che il governo italiano si facesse parte dello sforzo per affrontare i danni derivanti dall’uso dell’uranio impoverito, domandando che lo stesso diventasse protagonista della battaglia internazionale per mettere al bando le armi pericolose: «Vi sono già gli elementi scientifici sufficienti per considerare rischioso per l’ambiente il rilascio di queste sostanze, a causa dei noti effetti cancerogeni e dell’impatto sul sistema cromosomico dei giovani». Il gruppo diessino applaudì con una convinzione degna delle migliori cause, molti senatori scesero dal loro banco per stringere la mano alla De Zulueta. Gli atti parlamentari registrarono le congratulazioni e il sottosegretario diessino Massimo Brutti accettò l’ordine del giorno sottoscritto dalla De Zulueta e dal presidente diessino della commissione esteri del Senato, Gian Giacomo Migone. Nel testo si diceva che l’inquinamento da uranio impoverito, «per tempi di decadimento e rischi radiologici e tossicologici può creare seri problemi a lunga scala temporale — una decina di anni — alla salute degli strati più giovani della popolazione sotto forma di un aumento di malattie tipo leucemie». Parole chiarissime, scritte nero su bianco negli atti parlamentari. Insomma, il governo D’Alema, almeno grazie alla senatrice De Zulueta, sapeva. E, per una volta, Tana non libera tutti...
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