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giovedì 13 febbraio 2014

Ban Ki-moon “l’indiano”. Quando disse: “Qui mi sento a casa”


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Il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon
Il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon
A New Delhi il segretario generale dell’Onu ha iniziato la carriera da diplomatico, qui è nato suo figlio. E indiano è anche il marito della figlia
New York, 13 febbraio 2014 – Erano trascorsi circa due mesi e mezzo dall’incidente in acque internazionale in cui era rimasta coinvolta la nave Enrica Lexie e dall’arresto dei due fucilieri di Marina fermati in India con l’accusa di aver ucciso a sangue freddo due pescatori indiani. Era il 27 aprile del 2012, precisamente, quando Ban Ki-moon si recava a New Delhi per ritirare una laurea ad honorem all’Università Jami Millia Islamia. I due fatti non sono ovviamente collegati fra loro, anche perché in quelle battute, che si riveleranno solo iniziali, «il caso dei due Maro’», era un fatto assolutamente nazionale. E come tale, doveva essere risolto solo dalle parti in causa, come sosteneva allora anche Bruxelles così come l’Onu, refrattarie a intervenire a qualsiasi titolo per una serie di inopportunità politiche e non solo. Il punto è un altro, ovvero in quell’occasione il segretario generale pronunciò una frase, che allora passò inosservata, ma che letta alla luce di quanto accaduto negli ultimi giorni, induce quanto meno a una riflessione. La frase in questione è: «Quando sono in India sono a casa».
Tra Ban e il Paese asiatico c’è, infatti, un legame a doppio filo che attraversa la sfera professionale e personale, come lui stesso tenne a precisare in quella sede. Da giovane diplomatico iniziò la propria carriera proprio in India: «Il mio servizio al ministero degli Esteri è cominciato proprio qui…esattamente 40 anni fa, con il mio primo incarico. E’ stata una delle cose più belle che mi siano mai capitate», disse Ban ricevendo la laurea di dottore in lettere. Un’esperienza che lo ha segnato insomma: «Da allora ho imparato molto dalla orgogliosa storia dell’India. Ho imparato molto dalle vostre tradizioni. sono stato ispirato dal vostro esempio». Questo sul lato professionale.

Sul versante personale invece, occorre ricordare che in India è nato il figlio del segretario generale, ma questo può non contare più di tanto, conta un po’ di più invece che la figlia di Ban ha sposato un cittadino indiano. «La coppia ha dato alla luce quella che io considero la migliore joint-venture tra i nostri due Paesi, ovvero mio nipote», affermò quel 27 aprile Ban alla platea del Ma Ansari Auditorium strappando un’ovazione, come riportarono i media indiani allora. «Per tutte queste ragioni – concluse così il numero uno del Palazzo di Vetro – vi dico che quando sono in India sono a casa». Ora questa incursione nel passato di Ban Ki-moon potrebbe non voler dire nulla in merito alla questione dei due militari italiani bloccati in India da due anni senza un’accusa formale, o sul neutralismo ad oltranza dell’Onu – interrotto solo ieri – su una questione che da subito ha sembrato avere tutte le caratteristiche di un affare internazionale. Non si vuole certo con questo flashback, fra l’altro doveroso a livello di informazione, mettere in dubbio la buona fede di un’autorità che deve essere garante a livello mondiale. E’ anzi convinzione diffusa che Ban avrebbe agito allo stesso modo anche se fosse stata coinvolta la Corea del sud, da una parte o dall’altra. La riflessione è un’altra, o meglio la speranza. Che il segretario generale sfrutti questo suo rapporto privilegiato con l’India per contattare in tempi stretti New Delhi prodigandosi affinché questa lunga e surreale vicenda, abbia un epilogo giusto e onorevole, come prevedono i principi fondatori della carta costitutiva delle Nazioni Unite.
di FRANCESCO SEMPRINI
Fonte La Stampa

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