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giovedì 20 novembre 2014

L’unione fa la forza (delle multinazionali)

L’unione fa la forza (delle multinazionali)


IL PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE EUROPEA JEAN-CLAUDE JUNCKER È NEL CENTRO DEL MIRINO IN SEGUITO ALLO SCANDALO CHE LO HA VISTO FIRMATARIO DI ACCORDI SEGRETI CON 340 MULTINAZIONALI, VENUTI ALLA LUCE IN SEGUITO ALL’INCHIESTA GIORNALISTICA LUXLEAKS. LE SUE DIMISSIONI, CHIESTE A GRAN VOCE DA PIÙ PARTI, APPAIONO NECESSARIE PER RISTABILIRE L’ORDINE, MA NON È JUNCKER IL VERO PROBLEMA. IL PROBLEMA È UN’UNIONE ECONOMICA E MONETARIA CHE AVVANTAGGIA ESCLUSIVAMENTE LE MULTINAZIONALI.

Presidente della Commissione Europea dal 1° Novembre di quest’anno, dopo appena due settimane Juncker rischia già di dover dare le dimissioni. Il motivo, come è noto, è la vicenda degli “sconti alle multinazionali” che lo ha visto protagonista . L’inchiesta giornalistica LuxLeaks ha portato alla luce i sotterfugi che, dietro all’apparente retta gestione “all’europea”, avevano fatto la grandezza del piccolo ducato di Lussemburgo, del quale Juncker è stato Primo Ministro per un ventennio. L’accusa è di aver stipulato accordi segreti ed ad hoc con varie multinazionali – tra cui Amazon, Ikea, Deutsche Bank, Procter&Gamble, Pepsi, Gazprom e l’italiana Finmeccanica- facendo del granducato un vero e proprio paradiso fiscale. In pochi anni il Lussemburgo (con un reddito pro capite di oltre 100 mila dollari, e un impiegato in banca ogni 20 cittadini) è diventato il secondo stato più ricco del pianeta (secondo, solo, al Qatar). E se il Ppe, come gran parte del suo entourage politico, sembrano voler nascondere più in fretta possibile la polvere sotto il tappeto, minimizzando la questione, un editoriale di Bloomberg si fa portavoce di una posizione pubblica ben diversa. “Il nuovo presidente della Commissione europea- si legge- è sempre stato la scelta sbagliata per l’incarico, imposto sui 28 governi dell’Unione Europea da un Parlamento desideroso di ampliare i propri poteri. Ora sta già diventando chiaro che pessima decisione sia stata la sua nomina” . Bomba ad orologeria, scandalo, fatto grave ed inaccettabile, tale è definita la vicenda che vede Juncker nel centro del mirino. Ancora più inaccettabile se si considera che il Lussemburgo, insieme ad altri stati virtuosi del Nord Europa, non si esimevano dal criticare ferocemente la condotta irresponsabile e spendacciona degli stati maiali.
Un Primo Ministro che predica bene e razzola male è forse la nota meno stonata in tutta la vicenda. Possiamo convivere bene con l’idea che i politici (presi singolarmente) al potere facciano i propri interessi, così che la notizia che un politico abbia riscosso tangenti o l’altro abbia presentato rimborsi spese gonfiati non ci stupisce neppure troppo Se il buon senso e un approccio empirico ai fatti dell’attualità ci portano ad affermare, quasi rassegnati, che “destra o sinistra, i politici sono tutti uguali”, ben altra cosa è l’Europa, entità sovranazionale che dovrebbe porsi (anche) come istituzione super partes rispetto ai vari contesti nazionali. In un periodo di profonda incertezza, Juncker ha utilizzato in maniera spregiudicata il tax ruling per arricchire il proprio stato, mentre gli eurocrati legiferavano su innovazione, concorrenza e lotta alla corruzione. L’opinione pubblica è indignata e giustamente si domanda se una persona che ha agito in questo modo possa ora- in veste di presidente della Commissione- fare gli interessi dell’Europa, di quei fratelli europei che in un modo o nell’altro ha danneggiato.
Un duro colpo per la credibilità delle istituzioni europee, che hanno investito tante risorse nella costruzione di un mondo immaginato (l’Europa e gli europei) che doveva apparire tanto reale quanto “giusto”. Passati quasi dal giorno alla notte da continente ad Unione- un’unione per cui non era stato indetto nessun referendum, una scelta forzata dunque- lo sforzo è risieduto nel costruire e di pari passo convincere i popoli europei di un’originaria e comune matrice, nonostante le tante, forse troppe, differenze. Far accettare come cosa buona e giusta i tagli, le politiche di spending review e ancora continuare a preservare il concetto di identità europea dalle ondate migratore e dalla mancata integrazione, quando la ricomposizione etnico-culturale rendeva obsoleta e perfino ridicola la categoria culturale identità.
Aumenta una frattura- del resto già esistente- tra i cittadini e la fortezza Europa di eurocrati ed eurocavilli ma delle buone intenzioni, meticolosa nei suoi controlli, stringente nelle direttive. La perdita di credibilità mina il progetto Europa in profondità, in un periodo in cui la fiducia dei cittadini nelle istituzioni europee si corrode giorno dopo giorno. Una mancanza cronica di fiducia che si preavvertiva fin dalle origini e che dunque si configura più come problema endemico che come fatto sopraggiunto.
Estirpare l’erba cattiva può apparire, a prima vista, la soluzione migliore per proseguire il cammino di un’unione economica e monetaria sempre più stretta. Una volta tolto di mezzo il problema, si può ancora sperare che i cittadini riconoscano e condividano la bontà del progetto Europa. Per questo le dimissioni di Juncker appaiono quanto mai necessarie per ristabilire l’ordine. Senonché il problema non è quello, non è Juncker. Scandali come quelli di Juncker palesano, nella loro mostruosa evidenza, l’Unione Europea per quella che è, nella sua interezza. Spogliata delle belle parole e delle buone intenzioni resta un’unione di Stati sì, ma che fanno la forza delle multinazionali, non certo dei cittadini. Quando leggiamo della storia dell’Unione Europea (in principio CEE), tra i motivi alla base della sua fondazione viene sempre riportato quello, tanto poetico, della pace tra i popoli. Poco tempo era passato dalla fine del Secondo Conflitto mondiale che aveva devastato il continente, quando Schuman pronunciò il celebre discorso divenuto l’atto di nascita dell’Europa comunitaria.
L’idea che potesse scoppiare una Terza guerra mondiale sembrava alquanto improbabile ma in fondo, chi non desidera la serenità? Gli europei, che avevano vissuto sulla propria pelle gli orrori del conflitto, accoglievano con entusiasmo l’idea che un’entità sovranazionale si ponesse a difesa della pace del continente. Gradualmente, la pace è quasi del tutto scomparsa dai discorsi ufficiali.
Dall’idea di una cooperazione si è passati a quella di integrazione e poi di direzione. Dal mercato unico- il cui scopo era la libera circolazione di merci e capitali- nel 1999 l’unione economica e monetaria entrò nella sua fase conclusiva con l’introduzione dell’euro.
L’abolizione delle frontiere è stata salutata come l’inizio di un’era di libertà. Ai cittadini è stato assicurato che da allora in avanti avrebbero potuto viaggiare in lungo e largo per l’Europa senza la noia dei controlli alla dogana (ma non era stato detto che poi, i soldi per viaggiare, non li avrebbero avuti). Le PMI sono state abbindolate con promesse di un mercato grande, grandissimo e di profitti raddoppiati (ma non è stato detto, poi, che avrebbero dovuto fare i conti con un’oligarchia finanziaria che avrebbe di fatto controllato il mercato).
E se ai cittadini l’Unione Europea ha garantito la pace ( ma anche su questo ci sarebbe da discutere) vantaggi ancora maggiori sono derivati alle multinazionali dal mercato unico e dalla libera circolazione di persone, merci e capitali. Dalla possibilità di delocalizzare in maniera più facile la produzione, alla reperibilità di manodopera a basso costo, alla grandezza di un mercato che avvantaggia chi, come le multinazionali, vende prodotti standardizzati. Gli “sconti” fiscali concessi da Juncker alle multinazionali possono ben iscriversi in quella “libera circolazioni di capitali” del mercato unico. La vicenda, che con tutta probabilità non avrà conseguenze legali, non fa che aumentare il divario tra i cittadini europei e l’Unione, che appare sempre più diversa da quella raccontata. Non è l’Europa dell’equità e delle ricchezza, né della crescita economica e dell’inclusione sociale. Quella è un’altra storia, un’altra Europa.

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