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venerdì 27 marzo 2015

Quel marziano che si chiamava Flaiano

Più di un secolo fa, di marzo, nasceva o atterrava Ennio Flaiano. Quello che ne resta oggi visto dal “Diario degli errori”, una raccolta di riflessioni, aforismi e idee di un sintetico integrale.
DI ANTONIO TAURELLI - L'Intellettuale Dissidente
Il cinque marzo Ennio Flaiano avrebbe compiuto centocinque anni, e di sicuro “non sarebbe sceso a patti con la mediocrità della saggezza” che si insidia quasi sempre nelle teste più stagionate. Lasciando per un attimo, ossia il tempo di questo articolo, il Flaiano sceneggiatore, amico di Fellini, critico letterario, scrittore, passiamo allo spirito dell’intellettuale di cui brulica il “Diario degli Errori”, un piccolo testamento per gli amici con cui chi vi scrive vuole raccontarlo. Sotto la esile corazza di cellulosa, il libricino color Adelphi raccoglie esercizi di intelligenza, gioielli e bigiotteria di una mente elegante che vede l’italiano medio con la stessa spontanea e scagionante estraneità che gli uomini riservano alle scimmie. Non c’è solo questo però in “Diario degli Errori”. C’è anche il talento della vivisezione, il vizio di risalire al DNA dei comportamenti e di riuscirne fuori con il leggero responso di quella filosofia ancora possibile che è l’ironia.
Se non possiamo parlare di una vera filosofia del martello, è appropriato parlare di una filosofia del martelletto, non essendoci più giganti di argilla da distruggere ma innumerevoli miniature che l’uomo medio tiene gelosamente custodite al caldo del proprio discorso. Il pregio del libro e il suo carattere testamentario sono insiti nella sua forma frammentaria che è l’unica, peraltro, in grado di resistere all’ingranaggio di facebook e twitter. Anzi, leggeri fini e appuntiti come aghi di pino, i broccardi flaianei, perché di questo si tratta, si infilano nel trita-tutto del meccanismo dei social network uscendone praticamente illesi.
Piaccia o no, gli autori che più ci formano sono quelli che possono essere letti per frammenti, essendo gli unici realmente tascabili nei recessi della mente. E’ una sfumatura rara, visto che riesce a pochissimi, infondere la consapevolezza della propria opera nei singoli mattoncini che la costituiscono. Spesso palazzi magnifici non hanno un singolo mattone pregevole e questi sono quelli che sotto gli strali di un’ agorà digitale soccomberanno.
Alla fine, nella vita extra-libresca, difficilmente rimangono le strutture dei romanzi, i sottili rimandi di cui abbiamo goduto leggendo, tutti i personaggi che abbiamo scrutato e le sfumature che abbiamo colto: nella testa rimangono attimi, pose e lacerti che se sono l’opera in miniatura, ci ridanno tutto indietro compreso lo spirito di un autore. Flaiano fa di questo, in Diario degli errori, un credo meticoloso e con bigotta osservanza asseconda la pigrizia nella forma magnifica della sintesi. Forse la cosa che più amiamo di Ennio Flaiano è la sintesi come disposizione naturale, come via diretta e meno faticosa per un talento: il modus operandi di un intelligente che non si applica. Questo non può che suscitare quella tenera invidia che subito sconfina nell’ammirazione incondizionata. Pascal un giorno scrisse in calce a una missiva : “scusami se ti ho scritto una lettera lunga, non ho avuto il tempo per scriverla più corta”, osservando quell’idea antica per cui la sintesi è il frutto di una laboriosità indefessa. Invece per Flaiano si ha l’impressione che la sintesi sia un getto, una trovata, una soluzione data in fretta, quella stessa fretta che nei più è verbosa, additiva e anchilosata. A Flaiano riesce così naturale arrivare al midollo delle cose con pochissime e perfette parole da credere che ci sia un trucco o quanto meno un metodo. A chi gli domandava perché scrivesse così poco, rispondeva: “ Se uno scrittore è prolifico, date un’occhiata a sua moglie. E’ quasi sempre brutta. E che volete che faccia il poveretto? Scrive!”
Frasi come “l’inverno è lastricato di buone intenzioni” sono il modo più vero per raccontarlo, scorci di mondo, fotografie ad altissima risoluzione che descrivono l’occhio di un uomo poco comune. Per dire come questi adagi finiscano per diventare delle vere categorie per la loro efficacia, si può proporre questo esempio: “In questi tempi l’unico modo di mostrarsi uomo di spirito è di essere seri. La serietà come solo umorismo possibile”: come si fa a non pensare ai Mario Monti, ai Draghi, ai Letta come a tanti umoristi inconsapevoli? Alla fine l’evidenza di cui Flaiano ci rende partecipi contagia e fa del lettore un inevitabile assertore del suo spirito. Pensiamo a questa considerazione profetica, o quanto meno attualissima, riguardo all’esistenza di Dio partendo da Mattarella: “(…) siccome Dio ha creato e messo al mondo anche il ministro Mattarella e il ministro Andreotti, anzi sembra che la loro esistenza sia più preziosa e utile della mia, la cosa mi lascia indifferente”. Questo è Ennio Flaiano, il nostro Wilde abruzzese che ha vissuto da marziano nel paese dei mandolinisti.

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