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martedì 2 agosto 2016

SCHIAVI NEI CAMPI PER GRAZIA RICEVUTA




 di Gianni Lannes


Sono migliaia eppure risultano invisibili, anche se mantengono in vita l’agricoltura italiana, la stessa che fa a meno dei braccianti nostrani per sfruttare al meglio quelli stranieri, sottopagati a livello schiavistico. Frutta e ortaggi del belpaese sono in gran parte prodotti dalla manovalanza straniera senza diritti.

Non sfruttati ma schiavi in particolare nelle campagne del sud Italia. Secondo l’ultimo dato dell’Eurispes in tutta Italia il nero nel settore agricolo (dati 2013) ha riguardato il 32 per cento dei lavoratori. Tra di loro, 100 mila stranieri sono stati sottoposti a gravi forme di sfruttamento. Questi numeri, però, sono addirittura ampiamente sottostimati e non tengono conto dei minori sfruttati all’inverosimile, ammassati  alla stregua del bestiame nei cosiddetti “centri di accoglienza”, come ha da tempo rilevato un dettagliato rapporto della Caritas.

Lavoratori provenienti dall’Africa e dall’Europa dell’est, che sopravvivono da anni in Italia, hanno quasi tutti il permesso di soggiorno, seguono la stagionalità dei prodotti in Puglia, Calabria, Basilicata, mentre sono più stabili in Campania e Lazio. È la fotografia del modello mediterraneo dell’agricoltura, fondato su sfruttamento e caporalato.

Spesso è “lavoro grigio”, ossia regole che si adattano in base alle convenienze, al cinismo del padrone e a pezzi di carta che fanno da scudo agli scarsi controlli delle forze dell’ordine.  

Il caporalato è una pratica diffusa, anzi tollerata dal governo tricolore, e in ultima istanza, alla fine della catena diventa la “tassa” sul trasporto nei campi e prevede un’articolazione tra “capineri” e “padroni bianchi”. A Rosarno e nella Piana di Gioia Tauro, da novembre a marzo si raccoglie il 60 per cento delle arance prodotte in Calabria. Di stagione in stagione si consolida una vera e propria zona franca di sospensione della dignità e dei diritti. Nel frattempo l’83 per cento dei braccianti vive in insediamenti precari privi di servizi igienici, acqua ed elettricità, mentre uno su cinque dorme per terra per la mancanza di un letto. Il 77 per cento degli sfruttati ha un permesso di soggiorno, il 38 per cento per motivi umanitari, il 18 per cento per protezione internazionale e il 12 per cento per lavoro. Clementine e mandarini si pagano soprattutto a cassetta (1 euro), mentre le arance a giornata, 25 euro in nero a fronte dei 42,96 lordi previsti dal contratto provinciale del lavoro.

Nella Capitanata, in provincia di Foggia sono oltre 20 mila gli stranieri che tutto l’anno si dedicano alla raccolta di frutta e ortaggi e da luglio a settembre del pomodoro. Seimila vivono in insediamenti precari, come il “Gran Ghetto di Rignano” ai piedi del Gargano, a 15 chilometri da Foggia e a 5 da San Severo. Il reclutamento avviene in modo sistematico attraverso il caporale e il rapporto di lavoro è di norma caratterizzato da sottosalario, cottimo e irregolarità contributive.  

Nel Vulture-Alto Bradano, in Lucania, i primi stranieri arrivati a lavorare la campagna furono i tunisini, marocchini e algerini nella seconda metà degli anni Ottanta. Ora sono subsahariani, soprattutto del Burkina Faso; quasi tutti residenti nel Nord Italia, qualcuno in Campania, ma spostatisi qui per lavoro.
A differenza del nero di Gioia Tauro, da agosto a ottobre la raccolta del pomodoro lucano si tinge di grigio: formalmente regolare ma, nei fatti, viziato da irregolarità salariali. Ben il 92% dei lavoratori ha un permesso di soggiorno (ma solo il 62% la tessera sanitaria), il 55% è in possesso di un contratto di lavoro, ma la maggior parte non sa se e per quante giornate vengano versati i contributi.

La modalità di ingaggio ha ripercussioni su come si sta al lavoro: chi viene pagato a cassone molto più difficilmente farà una pausa rispetto ai colleghi a ore. Quanto alla paga, se in Calabria e Campania oscilla tra i 25 e i 35 euro, qui sale tra i 57 e i 76 al giorno. Il motivo? La raccolta in Basilicata è molto più breve (30-60 giorni) e le condizioni di lavoro particolarmente estenuanti. Lavorare il più possibile, in un breve lasso di tempo, per guadagnare il più possibile.

Nell’Agro Pontino in provincia di Latina, i sikh del Punjab indiano vivono in modo stanziale. Il 70per cento ha un contratto di lavoro nel settore agricolo, ma il caporalato qui assume le caratteristiche di una vera e propria tratta di esseri umani. Il 21 per cento dei braccianti si spacca la schiena per più di 10 ore al giorno, tra sottosalario e contratti comprati. Truffatori scambiano l’assunzione e il permesso di soggiorno con un debito di migliaia di euro che i lavoratori indiani estinguono in anni di lavoro gratuito. Producendo gli ortaggi che andranno a finire nei mercati di Roma.

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