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domenica 25 febbraio 2018

Più abbracci i tuoi figli e più il loro cervello si sviluppa. Lo dice la scienza

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Più abbracci i tuoi figli e più il loro cervello si sviluppa. Lo dice la scienza

L’abbraccio è un gesto molto potente dal punto di vista emotivo ma anche fisico. Sapendo questo dovremmo essere particolarmente generosi e dispensarne tanti ogni giorno a partire proprio dai nostri figli. Sembra infatti che i bambini più abbracciati siano anche quelli con lo sviluppo cerebrale migliore.
Il tempo trascorso con la famiglia e con i figli non solo rafforza i legami ma è in grado anche di donare innumerevoli vantaggi fisici. Un semplice abbraccio dato a chi si ama, ad esempio, provoca sorprendenti cambiamenti positivi. Quando ci scambiamo questo segno di affetto e vicinanza entra in gioco l’ossitocina, nota anche come ormone dell’amore.
Questa sostanza regola numerosi comportamenti sociali vitali, come appunto la capacità di legarsi emotivamente ad amici e familiari. Aiuta le madri durante il parto e poi a sviluppare legami sani con i loro bambini proteggendoli e facendoli crescere al meglio. Si può dire quindi che la nostra sopravvivenza è legata anche all’esistenza di questo ormone che promuove i legami sociali e aumenta lo sviluppo cerebrale riducendo ansia e stress.
La sua produzione è stimolata non solo dagli abbracci ma anche dall’allattamento al seno e dal contatto pelle a pelle. Immaginate dunque cosa può succede ad un bambino che non sperimenta gli abbracci e l’amore di chi se ne dovrebbe prendere cura…
Probabilmente l’effetto negativo si avvertirà sulla fiducia che (non) svilupperà verso gli altri e sulla sua capacità di stabilire relazioni sane con altre persone.
Secondo una nuova ricerca del Nationwide Children’s Hospital in Ohio, l’affetto fisico che si esprime soprattutto tramite abbracci durante il periodo di sviluppo del bambino è ancora più importante di quanto si pensava fino ad oggi.
I ricercatori hanno notato infatti che più si abbraccia un bambino più il suo cervello ha la possibilità di sviluparsi al meglio. Per arrivare ad affermare ciò il team di esperti ha preso a campione 125 bambini, sia prematuri che a termine, di cui si è esaminato il modo in cui erano stati accuditi nei primi mesi di vita.
I risultati hanno evidenziato che i bambini prematuri rispondevano all’affetto meno dei bambini nati a termine. Ciò che è stato anche scoperto, tuttavia, è che i bambini che avevano ricevuto più affetto da parte dei genitori o del personale ospedaliero mostravano una risposta cerebrale più forte.
Le prime manifestazioni di amore da parte dei genitori e di coloro che si prendono cura dei piccoli hanno effetti duraturi su come il cervello del bambino reagisce alle manifestazioni d’affetto e ciò concretamente significa che abbracciare da subito e per lungo tempo potrebbe aiutare i bambini pre-termine a sperimentare l’affetto come circostanza piacevole anziché opprimente, stimolando al tempo stesso le risposte positive del cervello.
Secondo la ricercatrice Dr. Nathalie Maitre, questa scoperta ci dice che qualcosa di semplice come il contatto del corpo o cullare il bambino tra le braccia può fare una grande differenza nel modo in cui il suo cervello si svilupperà.
Fondamentalmente quindi l’affetto è vitale non solo dal punto di vista emozionale ma anche biologico per un sano sviluppo del cervello.
Non resta quindi che fare quello che per istinto ogni madre (e padre) si sente: abbracciare i propri bambini il più possibile!

fonte: https://www.greenme.it/vivere/speciale-bambini/26652-abbraccio-bambini
http://zapping2017.myblog.it/2018/02/25/piu-abbracci-i-tuoi-figli-e-piu-il-loro-cervello-si-sviluppa-lo-dice-la-scienza/

sabato 24 febbraio 2018

LA BUONA MADRE E' QUELLA CHE DIVENTA INUTILE

LA BUONA MADRE E' QUELLA CHE DIVENTA INUTILE
"La buona madre è quella che diventa inutile col passare del tempo.
È giunto il momento di reprimere l'impulso naturale materno di voler mettere il piccione sotto l'ala, protetto da tutti gli errori, tristezze e pericoli. È una battaglia difficile, lo confesso. Quando comincio a indebolirmi nella lotta per controllare la super-madre che tutte abbiamo dentro, mi ricordo la frase del titolo. " La buona madre è quella che diventa inutile..."
Se ho fatto il mio dovere di madre correttamente, devo diventare inutile. E prima che una madre mi accusi di disamore, spiego cosa significa. Essere "inutile" è non lasciare che l'amore incondizionato di madre, che esisterà sempre, provochi vizio e dipendenza nei figli, come se fosse una droga, a tal punto, che loro non siano in grado di poter essere autonomi, fiduciosi e Indipendenti. Devono essere pronti a tracciare la loro rotta, a fare le loro scelte, a superare le loro frustrazioni e a commettere i propri errori anche con ogni fase della vita, una nuova perdita è un nuovo traguardo; per entrambe le parti: madre e figlio.
L'amore è un processo di liberazione permanente, e quel legame continua a trasformarsi nel corso della vita. Fino al giorno in cui i figli diventano adulti, costituiscono la loro famiglia e ricominciano il ciclo. Quello che hanno bisogno è di avere la certezza che saremo con loro, fermi, nell'accordo o nella divergenza, nel trionfo o nel fallimento, pronte e presenti, l'abbraccio stretto, e il conforto nei momenti difficili. I genitori e le madri, in sostanza, allevano i loro figli affinché siano liberi e non schiavi delle nostre paure. Questa è la più grande sfida e la missione principale.
Quando impariamo ad essere "inutili", ci trasformiamo in un porto sicuro dove possono attraccare.
A Chi Ami Dai:
- Ali per volare.
- Radici per tornare.
- Motivi per restare.
Facciamo figli indipendenti e sicuri di se stessi per vivere una vita piena e onesta. "Quando una madre ama davvero educa i suoi figli per imparare a volare".

#vedoprevedostravedo2018...di Stefano Davidson


Va considerato che gli aventi diritto nel 2013 erano 47.000.000 ed oggi 51.200.000 e che quindi ci sono la bellezza di 4.200.000 (quattromilioni e duecentomila) nuovi possibili e auspicabili votanti belli "compressi" da cinque anni di Governo abusivo.
Sono questi ragazzi tra i 18 e i 23 che possono in realtà far "sballare" i sondaggi ufficiali nelle reali percentuali considerato che, come da analisi dei dati Quorum al 16 febbraio scorso, i giovani al primo voto scelgono M5S e che esso è comunque in assoluto il partito preferito di chi non ha ancora compiuto 44 anni. Figuriamoci tra quelli che hanno subito il Renzismo e il suo Fake Being in questi ultimi quattro anni.
Va anche ricordato che i "perdenti" agli occhi dei giovani in quanto tali "perdono" immediatamente appeal e come il Kalandrino, al momento, sia l'emblema del "perdente per colpe proprie". Che poi questo cretinetti provi a dar la colpa a D'Alema, nonostante sia stato lui il Segretario PD per quattro anni e le cazzate le abbia architettate ed inanellate personalmente, dipende dal suo solito essere bambino viziato e prepotente che se non vince o non lo fanno giocare dove vuole lui se ne va con il pallone (in questo caso il PD) o, se non è il suo, lo sgonfia, cosicché non ci giochino nemmeno gli altri.
Ricordo che nel 2008, quando il numero degli aventi diritto era molto simile ad oggi (50.000.000 ca) al voto andò l'80,1%.
Un po’ più pessimisticamente di Nino Pitrone secondo il quale considerato che il M5S nel 2013 era stato dato al 16% ma poi ha fatto il 25%, oggi vistolo al 28% annuncia un 43%, grazie a una semplice proporzione, io diminuirei sensibilmente la possibilità di errore dei sondaggi (va bene dare una spintarella ai soliti ignobili ma devono pur continuare a mangiare anche in caso di vittoria del M5S) e lo collocherei, forse più realisticamente a un appetibile 34/37%.
Se poi però l'affluenza dovesse essere simile a quella del 2008 a mio avviso il M5S potrà ambire davvero ad arrivare al 40%.
Stefano Davidson

venerdì 23 febbraio 2018

Muoiono nel deserto i neri libici di Tawergha perseguitati dai “ribelli” della NATO



Fra i suoi innumerevoli crimini impuniti, l'operazione della Nato in appoggio a gruppi armati antigovernativi in Libia nel 2011 può annoverare una pulizia etnica in piena regola.
Durante quei mesi di bombardamenti, le milizie islamiste della città di Misurata uccisero diversi abitanti della vicina Tawergha, la città dei libici di pelle nera, diedero fuoco alle case e spinsero alla fuga bambini, donne, uomini, anziani. Circa 40mila persone. L'accusa? "Erano dalla parte del governo di Gheddafi".
I più fortunati riuscirono a riparare in Tunisia o in Egitto. Gli altri da anni sopravvivono in alloggi di fortuna: capannoni, tende nei parchi pubblici, ma anche baracche in aree desertiche. Sette anni passati invano, come ha appena denunciato l'incaricata dell'Onu per gli sfollati, la filippina Cecilia Jimenez-Damary, dopo una visita in Libia.
Le condizioni dei cittadini di Tawergha sono terribili da tutti i punti di vista e gli aiuti internazionali agli sfollati possono appena alleviarle.
Due uomini sono morti nelle tende per via delle temperature notturne vicine allo zero.
Il ritorno a casa dei deportati continua a essere bloccato dalle milizie di Misurata e dalle complici autorità locali dell'area, malgrado un accordo approvato dasl governo di unità nazionale. Il quale si dimostra del tutto inerte.
Niente sembra scalfire l'impunità legale della NATO e dei terroristi ai quali fece da forza aerea.
Per non parlare dell'impunità politico-morale di chi riuscì a chiamare "rivoluzionari", "bravi padri di famiglia", "partigiani" quei gruppi armati razzisti ed estremisti. Adesso c'è il silenzio.

Marinella Correggia
fonte http://www.sibialiria.org/wordpress/?p=3498

Odio-paura-razzisti-fascisti ARMI DI DISTRAZIONE DI MASSA - USA: il Watergate dei democratici. Italia: strategia della tensione 2.0

Nella vita moderna niente è più efficace di un luogo comune: affratella il mondo intero.(Oscar Wilde)
Ecco uno striscione che fa felice strategisti della tensione e mondialisti

Asini e buoi dei paesi tuoi. E degli Usa
Quando si tratta di buoi, cervi, renne, rinoceronti, che danno del cornuto all’asino, gli Stati Uniti d’America sono, al solito, maestri e noi, al solito, i ragazzi e (non se l’abbiano a male le femministe) le ragazze di bottega: gli sguatteri che arrivano dopo, trafelati e ai piedi del podio. Negli Usa è successa una cosa che rovescia tutto nel suo contrario. Il Russiagate è svaporato e trasfigurato nel ridicolo. Il grande accusatore di un’elezione americana decisa da hacker russi, è il procuratore Robert Mueller, già capo dell’FBI, la più grande associazione a delinquere mai apparsa sul pianeta, fondata nel 1924 e retta fino al 1972 dal capo gangster Edgar Hoover che, a forza di spionaggio e ricatti, ha tenuto al guinzaglio tutti i presidenti della sua epoca (salvo Kennedy e Nixon e s’è visto). Di fronte alla clamorosa assenza della benché minima prova a supporto dell’assunto, in pieno affanno l’aspirante boia dello sventurato Donald Trump s’è inventato 13 blogger russi che, da un antro in San Pietroburgo, avrebbero diffuso notizie talmente malvage su Hillary Clinton da convincere 62,3 milioni di fessacchiotti tra Manhattan e Beverly Hills a votare il suo avversario. Talmente boccaloni da non aver avuto nemmeno bisogno, come gli italiani, dei pacchi-dono Usa per votare democristiano, o di una scarpa su due per votare Lauro.

Crolla il Russiagate, emerge l’FBIgate
A seppellire definitivamente la panzana Russiagate, con tanto entusiasmo spappagallata anche da noi nelle larghe intese tra “manifesto”, “Repubblica” e tutti gli altri fakenewisti dei massmedia atlantisti, è arrivata la deflagrazione di una bomba a talmente alto potenziale che...  non ne ha parlato nessuno. Né i paladini della libera stampa come Washington Post, New York Times, CNN, CBS, BBC, nè quei ragazzi della bottega di Soros, del “manifesto”, del “Corriere”, devi vari canali tv. Un esercito di “tre scimmiette”. Eppure l’affare è gigantesco, tanto grosso quanto le corna sull’ungulato del Russiagate. Vale per la mandria taurina dello Stato Profondo Usa, con dentro tutta l’intelligence, l’FBI, il ministero della Giustizia, Wall Street e il Pentagono, che si riprometteva di avviare all’impeachment il burattino sfuggito al controllo). Al confronto quelle di Trump sono corna di capretto.

Altro che Russiagate. Watergate!
Si chiama “Nunes Memo”, cioè memoriale di Devin Nunes, che è il presidente della Commissione Intelligence (Servizi Segreti) della Camera. Un rapporto risultante da un’inchiesta della Commissione che è stato prima secretato, poi pubblicato sotto pressione dell’opinione pubblica e del Partito Repubblicano, felice di poter rivoltare la frittata democratica che avrebbe dovuto incartare il presidente repubblicano e che ora, coinvolgendo ministri e direttori dell’FBI, potrebbe aprire le porte del carcere proprio a chi pensava di sotterrare la capa di pannocchia.

Conviene approfondire l’argomento andando su internet. Qui si dica solo che tranne silenzi, borborigmi imbarazzati, risolini e balbettii, l’establishment politico e mediatico non ha saputo contrapporre una cippa. L’inchiesta ha appurato che FBI e Ministero della Giustizia avevano cospirato per incastrare Trump nella fandonia di un suo ruolo di agente di Putin e traditore della patria. Utilizzando un noto pendaglio da forca ed ex-spia britannica, Christopher Steele, pagato per la bisogna da FBI e Ministero della Giustizia,ma anche dal partito Democratico, avevano fabbricato un dossier che pretendeva di provare che Carter Page, consigliere di Trump nella campagna elettorale, era in mano a Putin e ai suoi ordini rovinava la vita a Hillary.. Sulla base di questa bufala si erano fatti, illegalmente, assegnare dal Tribunale per la Sicurezza dell’Intelligenc (FISC), ricorrendo, abusivamente, alla Legge sulla Sicurezza dell’Intelligence (FISA), il mandato per spiare Trump e tutto il suo staff nel corso della campagna elettorale. In piena collaborazione con la CIA.

Niente di meno che un altro Watergate, ancora più sporco, da porre, oltrettutto, accanto al sabotaggio, effettuato dal Comitato Nazionale Democratico, dell’altro candidato del partito alla presidenza,  Bernie Sanders, in forte ascesa.  Un’ondata di calunnie tese anche a distrarre dall’immane scandalo (subito seppellito dall’FBI) delle mail riservate di Stato che l’allora Segretaria di Stato scambiava sul suo account privato addirittura con Anthony Weiner, marito della sua più stretta collaboratrice, Abedin, e pedopornomane scoperto e condannato. Era questa la candidata alla presidenza degli Usa pompata dalla “sinistra” italiana e, con particolare passione, dal “manifesto”.

Fascisti! Razzisti! Odio! Paura! Ci risiamo col bue cornuto e con la strategia della tensione. 

Questo abbagliante caso di corna di cartapesta affibbiate all’asino per distrarre da quelle ultraramificate e di duro osso piantate in testa al bovino, trova, come ogni misfatto amrikano, emulazione nella marca imperiale italiana. Non dubito delle buone intenzioni di coloro che il 10 febbraio hanno rinfoltito le file dei marciatori a Macerata. Dubito della loro chiaroveggenza. Dubito di chi ne presentava le ragioni  a livello di partiti e istituzioni. Dubito di portavoce della lotta al nazifascismo incombente che scoprono in una tranquilla e civile cittadina di provincia, sotto forma di un singolo disaddatato manifesto, preda di delirio xenofobo e revanscista, l’orrenda testa del rettile fascista che risorge dalle fogne. Dubito di strepitanti e virulenti accusatori di un mondo di odio e paura (il manifesto su tutta pagina:  “I giorni dell’odio”, editoriale dell’ungulata Rangeri su chi semina paura. Ovviamente l’asino…) che starebbe rovesciandosi su di noi, a partire da eternamente minoritarie formazioni di frustrati nostalgici, ora irrobustite dal cosiddetto “fascioleghismo”. 

Si confondono artatamente le ottuse volgarità antislamiche di Salvini con chi contrappone all’ipocrisia buonista la corretta e fondata valutazione di un fenomeno, quello delle migrazioni, pianificato dai mondialisti, come quello delle migrazioni. E, come la speculare controparte colonialista dell’accoglienza senza se e senza ma, pervicacemente ignora il destino che guerrafondai, multinazionali predatrici, corruzione e terrorismo indotti, assegnano ai paesi da cui si sollecitano i titolari a partire. Partire nella nuova tratta degli schiavi e, in ogni caso, esclusivamente per perdersi in qualcosa di subdolamente razzista come la deidentificazione attraverso assimilazione e integrazione (nella superiore civiltà europea).

Lidia Mena...pace?

Dubito – e mi perdoneranno coloro che hanno elevato le donne alla categoria, vagamente specista, sessista, razzista, del genere migliore – di chi, in virtù di questa categorizzazione, si è posto alla testa della denuncia dei disseminatori di odio e paura, odio inesorabilmente razzista, maschilista, fascista, paura diffusa dai rimasugli di Salò e dal buriname leghista, mica istigata da chi vede tirannosauri dove ci sono solo lucertole. Tipo Laura Boldrini, Emma Bonino, Lidia Menapace.

Di quest’ultima, mi limito a ricordare due momenti significativi:. Quando suscitò in alcuni burloni il ghiribizzo di ridefinire la partigiana e pacifista “Menaguerra”, per aver lei, pacifista e partigiana, sorpreso il suo seguito elettorale votando in parlamento per la guerra imperialista all’Afghanistan: "Votiamo nella nostra qualità di componente originaria dell'Unione", ha detto la senatrice del Prc, precisando che quello di Rifondazione "è un voto ragionato, critico, preoccupato e responsabile, anche sofferto".  L’altra volta fu a un incontro pubblico sulle guerre, con lei e me relatori. Dichiarato che le donne, in quanto generatrici di vita e custodi di vite inermi, sono diversamente dai maschi, ontologicamente contro ogni guerra (vedi Albright, Rice, Clinton, Thatcher, Pinotti,,,,), pretese l’ultima parola per dire che quella della Siria era una dittatura criminale, implicando che quel paese si meritava quanto gli stava capitando. Un bel discorso dell’odio, in sintonia con indefessi promotori dell’amore quali Obama o George Soros.

Mentre la triade della lotta all’antifascismo, ai discorsi dell’odio e alle fake news (rigorosamente di rete) svettava sui bravi manifestanti di Macerata, eravamo una cinquantina in un altro centro delle Marche a vedere un mio film dell’odio “O la Troika o la vita” e a scambiarci  discorsi dell’odio. Tipo 300mila ammazzati in Siria da Nato e suoi ascari, tipo generazioni nostre cacciate dal Jobs Act nel fosso lungo la strada per il futuro, tipo 12 milioni che non hanno soldi per curarsi, tipo un vecchio satiro molestatore e delinquente  rilanciato a padre nobile  C’era però parso che un certo odorino di emotività, se non di avversione viscerale, quasi quasi di odio, si sarebbe potuto anche percepire da come la presidenta della Camera aveva gestito l’opposizione dei 5 Stelle a certe manifestazioni di odio antipopolare e antipace, come le ghigliottine e i canguri ai dibattiti sui regali miliardari alle banche, o sulle missioni di guerre imperialiste, o sulla devastazione dell’ambiente (“Sblocca Italia”), o sulla distruzione dell’istruzione (“Buona Scuola”), o sui favori a big del crimine multinazionale (vaccini, trivelle, tabacchi, azzardo…).

Odio de ché, di chi?
Bonino-Soros: è vero amore.

Un odorino che nel caso della portatrice d’acqua per le campagne d’amore di Soros, Bonino, diventa profumo asfissiante al percorrere gli appoggi che la radicale gandhiana ha assicurato a indistintamente tutte le guerre dei terminator USraeliani,  tutti i provvedimenti sociocidi finalizzati a elevare alla settima potenza le diseguaglianze di una società di predatori e predati, tutti gli abbracci e baci con un liquidatore di eccessi di popolazione e di abusive autodeterminazioni dei popoli, come Soros. Profumo che serpeggia anche nell’affettuosa convivenza, nel presiedere al benessere degli italiani, con gentiluomini come Berlusconi, Previti, Dell’Utri, nell’amorevole difesa dei camorristi alla Cosentino e nel simultaneo schifo fattole dai magistrati anticasta, nel saltabecchismo acrobatico da una forza politica al suo opposto in nome della continuità morale radicale. Poi, al culmine della carriera, renzianamente, sorosianamente “+Europa”. Più Juncker, cioè più dumping fiscale, più evasione istituzionalizzata, più ordini agli italiani di come votare, più tasso etilico…  Niente male come passione per  diritti civili  inalberati sulla tomba di quelli sociali e umani. Del resto, l’altra sera, dalla compariella in cupola finanzcapitalista Gruber, non ha la zannuta e grinzosa europeista, laico-democristo-renzista, rivendicato la comune appartenenza al circolo Bilderberg che “non è mica il Ku Klux Klan, ahahahah”. Vero, il Ku Klux Klan restava limitato più o meno all’Alabama. Bilderberg e i suoi Rothschild puntano al mondo. Un mondo possibilmente con meno gente inutile e molto più Soros, più deportati dai paesi ricchi di risorse, più Ong, più generi sterili.

Squadracce nere o bancacce bianche?
Vista la risonanza riservata dai media alle tre eroine della lotta all’odio, al fascismo e ai critici del sistema migranti (il solito manifesto, con gigantografia che riesce a rendere addirittura avvenente la Bonino), ci tocca convenire che la lotta è impari. Che cianciavamo di tecno-bio-fascismo, protagonisti Wall Street, Obama e Silicon Valley, con incorporato odio per libertà e umanità, neanche più acquattato in qualche covo di periferia, ma bell’è installato ai quartieri alti e bassi dell’intero emisfero nord-occidentale, dotato delle armi-fine-del-mondo, nucleari per il fisico, cibernetici per il cervello, sociali per la cancellazione di diritti, identità, sovranità, cosa possiamo opporre a Boldrini, Bonino, Rangeri e mascolinità femminista al seguito?

Un inciso su Norma Rangeri, già acida critica televisiva delle mie “sanguinolente performances” contro la vivisezione al TG3, ora direttrice di un “manifesto”, “quotidiano comunista”, che sta all’imperialismo come un geometra sta all’archistar. Quello a cui fanno fare gli infissi e tappare le crepe. Il suo è anche l’House Organ di quella organizzazione sedicente non governativa, Amnesty International, sommamente governativa la dove occorre la vasellina delle calunnie per agevolare le guerre d’aggressione anglosassoni e Nato, da Kabul all’Avana, da Bagdad a Tripoli, al Cairo e a Damasco. Con inesauribile impegno per Regeni, nella misura in cui il giovane collaboratore di Negroponte serve a non parlare di un Egitto massacrato dal terrorismo dei fidati Fratelli Musulmani-Isis. Tappeto volante su cui ospitare questi emissari del Dipartimento di Stato e della Cia, “il manifesto” non si è privato del piacere di raddrizzare la schiena ai suoi molli lettori pacifisti pubblicando in pompa magna e con Croce di Ferro di Prima Classe proprio tutte le truculente invenzioni di Amnesty, ultima quella di giovedì scorso sull’odio e sul razzismo che permeano il linguaggio elettorale italiano (di tutti quelli che non concordano con Boldrini, Bonino, Rangeri, ovviamente).
 
Soros e Juncker: + Europa


Noi che pensavamo che il culto e la pratica della guerra fossero connaturati al fascismo di ieri, di oggi e di sempre, abbiamo dovuto constatare che si tratta di interventi umanitari  e che il vero fascismo sta in chi scribacchia cretinate su lapidi, o interrompe una trasmissione tv, o fa una manifestazione nazionale in cinquanta.Stiamo zitti e mortificati di fronte allo tsunami di odio di chi sbertuccia la Boldrini sul web, al razzismo di chi sospetta che dai migranti c’è chi guadagna ragion d’essere e molto altro, dai paesi svuotati delle loro genti ricava monoculture e miniere, da quelli inondati di spodestati e deportati produce conflittualità intersociale che distoglie da quella politica.
Abbiamo sbagliato tutto. Una volta che, a lezione da Boldrini, Bonino, Rangieri, Menapace, Gruber e, magari, Hillary, la spodestata dal cafone Trump, avremo capito che le fake news che fingono critica e opposizione non sono altro che viscerali e letali espressioni d’odio; che uno spostato con il tatuaggio pseudonazi sul cranio che spara a cittadini neri è Rodolfo Graziani alla guida degli squadroni neri e bruni in agguato al di là della siepe, pronti a rinchiuderci tutti nelle nuove Auschwitz; che chi non si presta ad integrare e assimilare alla superiore civiltà occidentale i selvaggi sfuggiti alla civilizzazione della Compagnie delle Indie, di Salazar, dei cotonieri della Carolina del Sud e di Churchill, avremo raggiunto la pace dei sensi, dello spirito e delle sinapsi.


Noi che ci eravamo limitati a ritenere, sia negli anni ’70 che oggi, che gli scazzi e le scazzottature tra fascisti da curva laziale e antifascisti museali, esprimessero l’idiozia dei boccaloni succubi dell’arma di  distrazione di massa Stalin contro Mussolini, convinti di stare sulla Linea Gotica e avere di fronte il Feldmaresciallo Kesselring (efficace distrazione dalla lotta necessaria, bassotti contro altotti), oggi abbiamo imparato dalla Boldrini  che odio è il conflitto tout court. Che dunque ogni conflitto, specie quello contro Juncker, Gentiloni, Marchionne o Nato, è male. E chi lo pratica Boldrini lo colga.

fonte http://fulviogrimaldi.blogspot.it/2018/02/odio-paura-razzisti-fascisti-armi-di.html

2) IL CAPITALISMO DI MEFISTOFELE. LA FINE DEL LAVORO.



di Roberto Pecchioli
La fine del lavoro è il titolo di un celeberrimo saggio del 1995 di Jeremy Rifkin, in cui il sociologo americano profetizzava che la terza rivoluzione industriale allora in corso, quella dell’avvento del computer, avrebbe lasciato in eredità una disoccupazione strutturale. Facile profezia, brillante nella diagnostica, acuta nella prognosi e scadente nella terapia, giacché l’unica soluzione proposta era la diminuzione dell’orario di lavoro, possibile solo al termine di un profondo salto di paradigma rispetto alla logica di profitto e dominazione che guida il capitalismo contemporaneo. Tuttavia, è da Rifkin che dobbiamo partire per uno sguardo sul presente e sul prossimo futuro, in cui la sua previsione diventa drammatica realtà.
In Italia, al di là dei proclami trionfalistici dei servitori del potere, non solo la disoccupazione reale non scende, ma si apprende che oltre 600.000 persone – il tre per cento del totale, la popolazione di una regione come la Basilicata- sono considerati occupati nonostante lavorino meno di dieci ore settimanali. Nella più ottimistica delle ipotesi, il loro reddito non supera i 400 euro mensili. Il numero dei richiedenti il sussidio di disoccupazione è cresciuto di circa tre punti e mezzo nell’anno trascorso, mentre il numero dei poveri non solo aumenta, ma coinvolge ormai moltissimi che un lavoro ce l’hanno. Secondo qualificate analisi, sarebbero 18 milioni – il trenta per cento della popolazione – i cosiddetti working poors, ovvero i poveri nonostante in famiglia esista un reddito. L’unico dato in crescita (più 120 per cento!) è quello dei contratti di lavoro intermittente. Intermittente, come le frecce dell’automobile…
Oltre 20 anni or sono, Rifkin non poteva conoscere le conseguenze di quello che abbiamo definito capitalismo di Mefistofele, un sistema sociale, economico e culturale che non soltanto si considera unico e immodificabile, ma lavora per strappare l’anima a miliardi di persone. Per di più, a differenza del diabolico personaggio del Faust di Goethe, presenta il conto alle vittime. E’ ragionevole affermare che se le prime due rivoluzioni industriali hanno inverato la “distruzione creatrice” descritta da Joseph Schumpeter, cambiato il mondo in profondità ma senza distruggere il lavoro, la terza ha ribaltato la situazione. Gli anni che viviamo sono quelli di una ulteriore fase, caratterizzata da tecnologia informatica, cibernetica e automazione. Tutti fenomeni che distruggono gli equilibri precedenti trasferendo quote enormi di potere e di risorse nelle mani di una minoranza piccolissima senza minimamente distribuire reddito o creare lavoro. La sconfitta delle ideologie nemiche del liberismo economico ha fatto il resto, rendendo debolissima la resistenza nei confronti della nuova realtà.
I corifei dei tempi nuovi si affannano a convincerci che tutto va per il meglio, ma risultano poco credibili: alla prova dei fatti, il verdetto della strada è impietoso. In prima fila ci sono i media del progressismo cosmopolita. Su Repubblica è comparsa una lunga intemerata di Enrico Moretti, docente di economia a Berkeley, intitolata “Il robot in fabbrica. Più lavoro se cresce la produttività”. La tesi di fondo, non nuova, è che tutto si aggiusterà, e altri impieghi sostituiranno senz’altro i milioni di posti sottratti dall’automazione. Che fine farà l’aumento della produttività in un mondo dove mancano i mezzi per spendere, non è chiaro. Il professorone è costretto ad ammettere che “l’automazione influenzerà sicuramente il tipo di posti di lavoro e la loro collocazione geografica”.
Si preparino i giovani, e non solo loro, a un destino di nomadi con il trolley in mano e qualche suppellettile dell’Ikea al seguito. Carl Schmitt scriveva negli anni 20 del secolo XX che il nuovo è talmente pieno di sé da non aver bisogno di alcuna legittimazione giuridica; la coscienza moderna nasconde l’aggressività nella concezione acritica del progresso. Il “nuovo” è legittimo in quanto tale. Il grande giurista ammonì che il libro più importante sarebbe diventato l’orario ferroviario; i tempi corrono, siamo passati all’ app con i voli low cost per la generazione Erasmus. Elogio della follia.
Secondo Moretti, il futuro premierà i titolari di master in nuove tecnologie, mentre tutti gli altri “perderanno terreno”. Decifrato il linguaggio – la crittografia è un elemento del nuovo che avanza-  significa che pochi fortunati in grado di ottenere determinate specializzazioni in università esclusive e costosissime, avranno moltissimo, tutti gli altri rimarranno a bocca asciutta. Alla faccia della proclamata uguaglianza delle opportunità!
Le due scommesse più importanti riguardano le tecnologie informatiche che stanno spostando su piattaforme digitali la richiesta di beni e servizi – pensiamo a Uber per i trasporti, Airbnb per gli affitti brevi, la consegna di cibo da strada (sinonimo di spazzatura), Amazon per le vendite a distanza – e l’intelligenza artificiale (A.I.) in grado di costruire robot per ogni mansione. Un altro entusiasta maestro cantore, sulla Stampa, organo domestico della ex Fiat, padroni progressisti con domicilio fiscale in Olanda e Stati Uniti, celebra la possibilità che l’intelligenza artificiale faccia aumentare i profitti del 38 per cento entro il 2020 e anche l’occupazione “se investiremo in una efficace cooperazione uomo-macchina”. Difficile capire che cosa significhi, c’è sempre il trucco nelle subordinate degli economisti di servizio. Più chiara è la somma di 4,8 trilioni di dollari di crescita dei profitti che scatena il giubilo del giornalista embedded.
Resta un unico piccolo problema, giacché “milioni di lavoratori in tutto il mondo dovrebbero inventarsi un nuovo ruolo e una nuova funzione “. Fortunatamente sono già stati sperimentati i robot giornalisti, con programmi digitali i cui algoritmi catturano in tempo reale le informazioni in rete, le collegano tra loro e fanno articoli d’attualità, talché è segnato anche il destino del gazzettiere torinese. Non è inutile ricordare che almeno il 90 per cento delle notizie che ci raggiungono proviene da cinque- sei grandi agenzie, di proprietà dei soliti noti: Mefistofele ha conquistato il campo.
Secondo Newsweek, venerato Vangelo liberal, l’intelligenza artificiale toglierà il lavoro a circa due milioni di americani entro il 2020. Altrettanti impieghi si creeranno, affermano con un eccesso di ottimismo, ma solo fintantoché la tecnologia non riuscirà a sostituirli con altri apparati, il che non pare difficilissimo, giacché si tratterebbe di operatori del medesimo sistema digitale e cibernetico. Il futuro appartiene dunque a una élite di cervelloni con la valigia in mano, titolari di master delle grandi università.
Chi vorrà testardamente restare a casa propria, non ha i mezzi per procurarsi il tipo di preparazione richiesta, o non è versato per quelle attività è e sarà sempre più un paria, ossia, in linguaggio americano, un perdente. Del sistema Amazon sappiamo: i dipendenti –chiamarli collaboratori fa più fine –corrono come lepri al suono di tamburi segnatempo, muniti di braccialetti a radiofrequenza, in attesa di ricevere i pacchi dai droni e competere con i robot. I veri pacchi sono i lavoratori, da spostare a piacimento, retribuiti con gli spiccioli e senza le tutele costate un secolo di battaglie.
E’ questo il sintomo sicuro della natura perversa del sistema. Mefistofele ha comprato l’anima delle forze culturali, politiche e sociali che, dall’Ottocento e sino alla fine del Novecento, si sono opposte ai suoi piani: innanzitutto le sinistre, ma anche i fautori della dottrina sociale cattolica sino alle destre fagocitate dal liberalismo puro e duro dei privatizzatori del mondo. Il vasto arco di chi si oppone alla deriva è frammentato, confuso, incapace di una risposta organica. Un esempio viene da “Inventare il futuro”, un saggio presentato come manifesto di una rinnovata sinistra radicale e digitale. Prendendo posizione a favore dell’automazione, gli autori non vanno oltre un orizzonte già sconfitto dai fatti. Proclamano: pretendi la piena automazione; pretendi il reddito universale; pretendi il futuro.
Stupisce l’ingenuità di chi è convinto che un’economia del tutto automatizzata libererebbe dalla schiavitù del lavoro, producendo quantità sempre più grandi di ricchezza. Utopie già sbaragliate dalla volontà di potenza del liberalcapitalismo, e la prova della schiacciante vittoria di Mefistofele, che ha conquistato l’anima di coloro che sfrutta. Ebbero ragione gli antichi, osservando che Giove toglie la ragione a chi vuole rovinare.  Ed anche la vista, giacché è sotto gli occhi di tutti la perdita di ricchezza per la maggioranza, la diminuzione del lavoro qualificato, mentre la fatica che le macchine hanno tolto a milioni di esseri umani si è soltanto trasferita.
“Lo scopo del futuro è la disoccupazione totale. Così potremo divertirci” scherzava il futurologo e scrittore di fantascienza Arthur Clarke, scomparso circa dieci anni fa.  Sapeva già, probabilmente, che l’intelligenza artificiale avrebbe fatto irruzione nelle nostre vite con una forza paragonabile a quella di Internet. I software dei robot umanoidi intelligenti, attraverso algoritmi detti evolutivi, sono già in grado di trovare soluzione a problemi senza che sia stato spiegato loro come trovarla. Prestissimo gli investimenti del settore manifatturiero si allocheranno presso chi disporrà delle migliori infrastrutture robotiche. Bracci artificiali ultra sensibili dotati di mani con diverse dita messi a punto da un’azienda di Taiwan sono in procinto di sostituire rapidamente il milione di operai cinesi utilizzati nella produzione del popolarissimo iPhone 6.
La robotica di servizio varrà da sola, nell’area europea, 100 miliardi di euro entro il 2020. L’americana Kiva System è stata assorbita per 800 milioni di dollari da Amazon, allo scopo di fornire al colosso di Jeff Bezos i carrelli intelligenti per i centri di spedizione. Google non è da meno, con l’acquisto di Meka Robotics, in grado di produrre robot destinati a lavorare con gli uomini. In Giappone lavorano ad apparati con sistemi di visione tridimensionale e Google ha effettuato anche il gran salto nella robotica militare, con Big Dog, robot a quattro zampe in grado di raggiungere i 50 km all’ora e Wild Cat (gatto selvaggio!), agile come i felini, che salta, si gira e fa svolte di 90 gradi.
Ciò significa che siamo entrati nell’era della concorrenza tra apparati automatizzati e uomini. I robot sono in grado di svolgere funzioni complesse sinora riservate al cervello umano, e la tecnologia si affina a velocità enorme. Uno studio di Oxford su 702 mestieri e professioni afferma che negli Stati Uniti entro 20 anni il 47 per cento degli impieghi potrebbero essere affidati a macchine intelligenti. Dunque, non saranno solo i colletti blu a sparire, ma identica sorte toccherà a moltissimi impiegati, professionisti, quadri. Con buona pace dell’ottimismo del professor Moretti, gran parte dei lavori perduti non si recupereranno più.
Qualcuno, con un efficace gioco di parole, ha sostituito la distruzione creatrice di ieri con la “disruption creative” o disruptive innovation, innovazione devastante. La rivoluzione digitale cambia fulmineamente l’intera prospettiva della produzione e degli affari. Esempio di scuola è Kodak, gigante della fotografia con 140 mila dipendenti e 30 miliardi di capitalizzazione in Borsa, fallita nel 2012 per aver perduto la battaglia del digitale. Instagram, nello stesso anno, minuscola realtà con 13 dipendenti titolare di un’applicazione per diffondere foto in telefonia cellulare, passava a Facebook per oltre 700 milioni di dollari. Due anni più tardi Zuckerberg avrebbe messo sul tavolo 19 miliardi per acquisire Whatsapp, la messaggeria istantanea.
I settori della disruptive innovation vivono in regime di sostanziale monopolio. L’industria musicale, per l’emersione delle “piattaforme” di diffusione ha già dimezzato i suoi organici. Il meccanismo delle piattaforme di messa in connessione sopprimono l’intermediazione tra clienti e fornitori, ma soprattutto trasformano il rapporto di lavoro in una collaborazione ultra flessibile, a chiamata. Fuori gioco sindacati, contratti e leggi sociali, esautorato il ruolo di controllo degli Stati e scavalcate le legislazioni fiscali, pongono a carico di chi fornisce i servizi i rischi d’impresa e i costi generali. Uber ha un giro d’affari superiore ai 10 miliardi di dollari con circa mille dipendenti e sta distruggendo il lavoro dei tassisti e dei noleggiatori di auto. Analogo dumping realizza Airbnb nel settore alberghiero. Amazon contatta venditori saltuari con chiamata su smartphone, mentre si fanno strada le piattaforme di recapito di pasti a domicilio.
Pochissimi dipendenti governano una pletora di collaboratori privi di assicurazioni sociali e dal reddito minimo. Questo è il risibile significato di diventare imprenditori di se stessi, più realisticamente gig economy, l’economia dei lavoretti. Il travolgente successo è dovuto al basso costo per il consumatore, che viene illuso da un modesto recupero di potere d’acquisto e non si rende conto di contribuire per miope egoismo all’ulteriore precarizzazione della società. Inoltre, i suoi gusti e le sue scelte, governate dall’alto, eterodirette, al ribasso, altro non sono che la volontà di chi dirige il gioco per creare consumatore schiavi, pronti ad acquistare paccottiglia a credito convinti di aver fatto scelte smart, furbe.
Il sistema pensa a tutto, promette un’economia di condivisione (sharing economy), ma l’utopia digitale è travolta dalla logica puramente mercantile delle super corporazioni, ogni giorno più ricche e potenti. Entro il 2025, l’automazione farà scendere del 16 per cento il costo del lavoro: tutto si risolverà in ulteriore profitto. L’economista francese Daniel Cohen ha parlato apertamente di rivoluzione industriale senza crescita, poiché la metà degli impiegati di oggi rischiano il licenziamento, resi obsoleti da automobili senza pilota, traduttori intelligenti, robot esperti in diritto, algoritmi di diagnostica medica, banche e negozi senza personale. Uno dei mercati più interessanti sembra essere quello dei cobot, i robot collaboranti, destinati a soppiantare le badanti. Afferma Eric Schmidt di Google: “I lavori realmente interessanti sono oggi quelli di creazione di robot capaci di riconoscere i movimenti dell’uomo e interagirvi”.
L’homo numericus sarà ancora più solo, in compagnia di cobot privo di confronto intellettuale. Anche per assumere o licenziare, l’algoritmo affidato alle macchine sembra più affidabile del funzionario umano. Grande progresso, i tagliatori di testa non avranno più nome e cognome. Il finale di questa rivoluzione sembra scritto: resteranno appannaggio degli esseri umani solo le professioni ad alto valore aggiunto di creatività e, all’opposto, i residuali compiti di fatica. Secondo Nuriel Roubini, economista à la page, una manodopera limitata al 20 per cento di quella attuale. Non sappiamo se le previsioni siano attendibili e i tempi saranno quelli incalzanti della tecnologia, ma è certo che aveva ragione Gunther Anders a denunciare, inascoltato, che l’uomo è antiquato.
Naturalmente, la cupola sa che un mondo siffatto è una bomba pronta ad esplodere. Per questo, ha già immaginato il rimedio per la larga fetta di umanità esclusa dallo loro festa: un modesto reddito universale in grado di depotenziare la frustrazione sociale, evitando rivolte e incanalando l’ormai ex homo sapiens verso un destino di consumatore compulsivo, moderatamente soddisfatto, un leone addomesticato sempre all’erta per scoprire, smartphone alla mano, le offerte speciali generosamente prodotte dal sistema. L’idea è che versando una piccola rendita vitalizia verrà soffocato il senso di ingiustizia, il desiderio di vita, la ribellione.
Incidentalmente, la fine del lavoro diventa anche la morte dei veri diritti civili, a partire dai contratti sino alle assicurazioni sociali. Lo Stato arretra e declina sino all’irrilevanza. Al contrario, l’uomo del Terzo millennio deve riappropriarsi dello spazio pubblico e volgere a proprio vantaggio le opportunità offerte da scienza e tecnologia sottratte alla proprietà esclusiva di pochi, restituite ad un ruolo comunitario presidiato da istituzioni pubbliche. Gli apparati cibernetici, una volta ammortizzato il costo, si pagano da sé, non si ammalano, non vanno in ferie e non maturano pensione: un boccone troppo ghiotto per la volontà di potenza dei padroni del mondo.
Mefistofele asserisce che il reddito offerto dai suoi mandanti sarà un surplus di libertà, ma è l’esatto contrario, per quanto troppi non se ne rendano conto. Decideranno loro ciò che è gratuito e ciò che non lo è. L’esercito narcotizzato dei disoccupati con sussidio sarà indotto a occupare la mente con pensieri scelti da loro: un consumo triviale, il soddisfacimento rapido delle pulsioni più istintive, nessuno spazio alla spiritualità o alla riflessione. Una vita avvolti nel cellophane, a condizione di non ribellarsi, pena la disconnessione, morte civile prossima ventura.
Ci forniranno una carta prepagata, meglio ancora un chip sottocutaneo attraverso il quale accederemo ai centri commerciali di loro proprietà, dove acquisteremo beni e servizi scelti per noi da lorsignori con addebito diretto. Tornati a casa, potremo sederci davanti a uno schermo per assistere a spettacoli prodotti dai soliti noti (Netflix, Amazon e compagnia pessima). Ovviamente, potremo accoppiarci con chiunque, se vorremo figli ci affideremo alla procreazione assistita, cioè ad altre macchine, la malattia grave non ci spaventerà più perché verremo soppressi alle prime avvisaglie, più o meno volontariamente, previo espianto di qualche organo in buono stato e del chip da cui sarà diffalcato il credito residuo da restituire agli Iperpadroni e su cui sarà leggibile in linguaggio binario l’intera sequenza delle nostre inutili vite.
Avremo il piacere di trascorrere la vita con tablet e smartphone su cui si alterneranno immagini piacevoli ad altre terrorizzanti; ogni cinque anni ci permetteranno di votare per qualcuno che eseguirà le disposizioni dell’oligarchia, la mera amministrazione dell’esistente. Una vita siffatta non è dissimile da quella dei polli di batteria e degli allevamenti intensivi di bovini da carne o latte. L’iperemotività postmoderna ci rende intollerabile tale sfruttamento degli animali, “i nostri fratelli minori”. Chissà perché, non abbiamo analoga sensibilità verso la nostra specie.
Per quanto adombrata dai cancelli di Auschwitz, resta centrale l’espressione il lavoro rende liberi. E’ il lavoro, insieme con la conoscenza, a donare dignità e grandezza all’essere umano, unica creatura morale, l’opera, l’uso dell’intelligenza, l’impegno di se stessi verso gli altri. Tutta la scienza non può, non deve essere volta, come oggi, al profitto di pochi e alla dominazione mascherata da benevola propensione al progresso, al consumo, alla materia. Fatti non foste a viver come bruti: l’uomo ha un’anima, comunque vogliamo chiamare la sua tensione verso l’infinito. Se è già mostruoso venderla per quattro soldi a Mefistofele, il nome d’arte del capitalismo ultimo, ancora più drammatico, grottesco è accettare di pagarla a chi ce la sta espropriando con vite divenute animali.
La fine del lavoro, se ci sarà nei termini in cui viene prospettata, non sarà una festa, o il ritorno nel giardino dell’Eden, ma la fine dell’Uomo. Affrettiamoci all’uscita: il gioco è chiaro, le carte truccate. Servono ribelli, partigiani della vita, innamorati della libertà. In principio era l’azione: Faust vinse su Mefistofele.
ROBERTO PECCHIOLI     
https://www.maurizioblondet.it/2-capitalismo-mefistofele-la-fine-del-lavoro/

Papa Francesco benedice i centri sociali: continuate la lotta



di Franca Giansoldati
CITTA' DEL VATICANO - Il Vaticano benedice il Social Forum. Davanti a lui cisono i cartoneros, i campesinos, quelli che si battono per i poveri in Africa e quelli che fanno battaglie per il microcredito nel Sud Est asiatico. Ci sono pure i ragazzi del Leoncavallo, forse il centro sociale più famoso d’Italia e la rete “Genuino Clandestino”, un network di centri sociali che coordina i No-Tav e i movimenti No Expò. Insomma una platea di ribelli, irriducibili, rivoluzionari. Papa Bergoglio è uno di loro.



«Diciamo insieme con il cuore: nessuna famiglia senza tetto, nessun contadino senza terra, nessun lavoratore senza diritti, nessuna persona senza la dignità del lavoro!». Papa Bergoglio ha preso la parola davanti ai principali movimenti popolari di tutto il mondo, invitati ad un incontro. Li ha esortati a «continuare la lotta, ci fa bene a tutti».



La battaglia resta quella di dare «Terra, lavoro, casa» a chi non ha nulla, una battaglia tesa ad azzerare le differenze sociali, il divario tra Nord e Sud. Bergoglio si fa portavoce di chi non ha voce. Ad un tratto si mette a parlare di sé, aggiungendo: «E’ strano, ma se parlo di questi temi per alcuni il Papa è comunista», mentre invece «l'amore per i poveri è al centro del Vangelo» e della dottrina sociale della Chiesa.



Come dire che l’ideologia in questa battaglia non c’entra. Stavolta al centro c’è solo la giustizia e il cuore. E’ la prima volta che in Vaticano si tiene una riunione del genere. Tra i partecipanti c’è pure il presidente della Bolivia, Evo Morales, che ha iniziato la sua attività politica proprio con questi movimenti popolari.
fonte http://www.ilmessaggero.it/primopiano/vaticano/papa_francesco_benedice_centri_sociali-665684.html